di Giovanni Magliaro

L’onda lunga della globalizzazione ha rovesciato da una trentina d’anni le sue implicazioni problematiche e le sue contraddizioni su tutti gli aspetti della vita e della società : il commercio, la finanza, il modo di lavorare, le comunicazioni, l’ambiente, i concetti stessi di coesione sociale e di solidarietà, le stesse funzioni dello Stato nazionale, e così via. E’ stato un fenomeno prepotente e diremo travolgente.
Agli inizi del fenomeno De Rita ebbe a dire che l’intreccio reciproco tra economia di mercato e processo di mondializzazione sta creando una vera e propria forza della natura così possente da sembrare inarrestabile.
Però assumere di fronte ad esso un atteggiamento diremmo fatalistico credo che sia errato per molti motivi. Anzitutto perché è un fenomeno nato in un particolare contesto storico e sappiamo bene che la storia è un continuo divenire, non esistono punti di arrivo definitivi. E poi è un processo posto in essere dall’uomo e come tale va considerato e governato.
Certo è un fenomeno molto complesso, caratterizzato all’inizio da luci e ombre ma col passare degli anni quasi solo da ombre. L’atteggiamento corretto  non è quello di accettarlo acriticamente in blocco ritenendolo ineluttabile ma di lottare contro i suoi lati negativi che sono la maggioranza e sono estremamente pericolosi per la sopravvivenza stessa della nostra società.
Quando parlo di contesto storico non posso non ricollegarmi ad una equazione illustrata correttamente da molti commentatori : l’equazione tra globalizzazione e americanizzazione.
Non possiamo dimenticare come si è svolta la storia recente. Dopo la caduta del muro di Berlino e il venir meno dell’altra grande potenza (che poi evidentemente tanto grande non era se è finita nel modo che conosciamo) lo scenario mondiale è cambiato completamente. E’ rimasta sulla scena una sola superpotenza e si è cominciato a pensare che ormai il mondo fosse avviato verso un ordine nuovo, che fossimo arrivati al famoso villaggio globale, basato su un modello capitalistico american style e che gli Stati Uniti fossero diventati i gendarmi di questo villaggio globale.
Del resto il potere di Wall Street era enorme, le comunicazioni  mondiali viaggiavano su una rete globale inventata dagli USA, la lingua ufficiale in economia e in tutto il resto che conta era quella angloamericana, la tecnologia e i brevetti che contano erano pure americani, il cinema e la televisione diffondevano nel mondo il modello di vita americano. Ricordiamo l’assurda teoria di Fukuyama sulla fine della storia : assurda certo, ma spiegabile con il clima di quel periodo.
Da quel periodo ha preso slancio, fino a sembrare inarrestabile, il liberismo selvaggio e il capitalismo modello americano con tutti i suoi corollari poi definito  col “nome d’arte” di globalizzazione.
E ricordiamo bene pure le tappe di questo processo di governo mondiale da parte degli Stati Uniti : dalla guerra del Golfo del 1990, dove questa teoria del gendarme del mondo fu messa subito in pratica e dove tutti gli Stati riconobbero il ruolo di guida di questa grande potenza, fino ad arrivare ai giorni nostri attraverso le tappe che tutti conosciamo bene.
Queste considerazioni significano pure una cosa abbastanza banale ma che qualche volta si tende a dimenticare o quantomeno a sottovalutare : la globalizzazione cammina di pari passo con il potere degli Stati Uniti e con la politica di espansione che questa superpotenza attua. Quindi non è un fenomeno ineluttabile e immodificabile così come non sono ineluttabili e immodificabili il potere e la politica degli Stati Uniti.
D’altronde già dalla fine del secolo scorso  la debolezza del modello finanziario-capitalistico americano è stata messa sempre più in evidenza. L’insofferenza verso questo modello, i dubbi sulla sua capacità di reggere nel lungo periodo, la riflessione sulla fragilità dell’economia finanziaria, l’infondatezza della teoria sulla “mano invisibile” del mercato capace di risolvere ogni problema stanno diffondendosi sempre più  in misura impensabile fino a qualche anno fa, quando nessuno o quasi se la sentiva di dubitare dei dogmi del nuovo pensiero unico.
Come pure diventa sempre più diffusa la sfiducia verso quegli istituti internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che in teoria avrebbero dovuto governare i processi di globalizzazione. C’è un grande divario fra le domande che vengono poste a questi istituti e le risposte che essi sono in grado di dare.  Non è molto noto il sistema di governance del Fondo Monetario Internazionale : i diritti di voto sono attribuiti non secondo le normali regole democratiche ma secondo il potere economico. E, attenzione, non secondo il potere economico di oggi ma sulla base di quello del 1944. Nel Fondo un solo Paese ha il potere di veto. Non ci vuole molto a indovinare che questo Paese sono gli Stati Uniti.
Di fronte a un fenomeno così pervasivo come la globalizzazione e le sue implicazioni quale deve essere la posizione, anzitutto sul versante culturale, di una componente come la nostra?
Anzitutto di fronte a un fenomeno che produce effetti in tutti i gangli vitali della nostra società, che prefigura scenari futuri in gran parte difficili da affrontare, che comunque mette in dubbio vecchie certezze, non sono ammissibili il silenzio o il fatalismo  né tantomeno la sottovalutazione come comoda scorciatoia per evitare un confronto che potrebbe essere anche aspro.
Ma vediamo qualcuno dei connotati che contraddistinguono la globalizzazione e che ci dovrebbero interessare molto da vicino.
Anzitutto il predominio del dato economico. La globalizzazione tende a fare dell’economia e del profitto il valore principale della società subordinando ad essi ogni altro valore e ogni altra istanza. Il mercato deve essere lasciato nella sua libera spontaneità  perché ha in se stesso la capacità di equilibrare ogni eventuale crisi.
Vi è poi lo svuotamento dei poteri degli Stati nazionali assoggettati di fatto alle scelte e alle decisioni  di una finanza internazionale svincolata da ogni regola. Un economista come Paolo Savona (non certo un rivoluzionario) ebbe a scrivere:”L’aver consentito alla foreign dominance di impossessarsi della sovranità monetaria ha fatto venir meno l’esercizio della sovranità degli Stati. Sono i mercati a dettare legge e la componente economica travalica ogni altra componente della scala dei valori sociali”. Per capire le dimensioni del fenomeno va ricordato che in un solo giorno le transazioni finanziarie mondiali sono il doppio del prodotto interno lordo di uno Stato come l’Italia. Sono in fondo i mercati finanziari a determinare le scelte di fondo dei governi in campo economico e sociale e le condizioni di vita di intere nazioni.
Globalizzazione significa pure competitività sfrenata tra le nazioni e tra gli individui con quello che ciò comporta a livello di coesione sociale e di solidarietà. In un suo interessante lavoro (Quadrare il cerchio) Dahrendorf ha messo bene in evidenza i pericoli di disgregazione delle basi delle nostre società che derivano da questa sorta di egoismo esasperato e di darwinismo sociale.
Vogliamo infine menzionare i riflessi che questo capitalismo selvaggio produce nel mondo del lavoro, in termini di precarietà dei rapporti, di insicurezza per il futuro, di disoccupazione endemica,di delocalizzazioni, di flessibilità esasperata e di mobilità da un posto all’altro e da un luogo all’altro?
Ebbene io credo che di fronte a queste problematiche la nostra cultura deve sentirsi chiamata in causa prepotentemente, deve scendere in campo – come laboratorio di analisi, di idee, di proposte – per capire ed elaborare le sue proposizioni e le sue scelte.
Tra i valori fondamentali della UGL  ci sono  il primato della politica sull’economia, la sovranità dello Stato nazione come dato comunitario essenziale, la nazione basata sulla coesione sociale e sulla solidarietà, il valore dell’uomo che lavora e che deve essere il soggetto e non l’oggetto dell’economia e del profitto. Ci sono la tutela della nostra identità nazionale e della peculiarità della nostra civiltà italiana ed europea.
E sono proprio questi valori, tutti ad essere in contrapposizione e ad essere messi in discussione ed anzi negati dalla globalizzazione. E se questo è vero  allora bisogna dire che la globalizzazione sta ponendo delle sfide epocali alla politica, alla cultura, alle istituzioni ma soprattutto alla politica e alla cultura di chi si riconosce in quei valori sopra richiamati. E le sfide consistono nel capire cosa fare per non accettare passivamente gli effetti perversi della globalizzazione, per non considerare come un destino inevitabile che questa demolisca progressivamente quella solidarietà e quella coesione sociale che sono alla base della nostra civiltà, per trovare gli equilibri idonei a conciliare il potenziale positivo della società dell’informazione con la garanzia del lavoro e di una qualità di vita migliore che in passato.
Uno dei rimedi principali a mio avviso è proprio nel DNA della nostra cultura : la politica deve riprendere il ruolo che le è proprio, si riaffermi il principio sul quale da duemila anni abbiamo fondato il nostro vivere civile : il principio dello ubi societas ibi jus. Occorrono regole. Non si può più pensare che la soluzione dei problemi si debba trovare nello spontaneismo del mercato e della finanza.
Come ho detto prima, Dharendorf per sottolineare la difficoltà di conciliare gli effetti negativi della globalizzazione con la necessità di coesione sociale e di solidarietà ha parlato di quadratura del cerchio. Si potrebbe anche aggiungere che il problema non è solo far quadrare il cerchio ma anche e soprattutto trovare il centro del cerchio. E il centro del cerchio è l’uomo. Ma l’uomo come lo intendiamo noi, nella sua essenza di umanità e di spiritualità. Non certo l’uomo che è al centro del profitto, prima come individuo da sfruttare sul lavoro poi come individuo da sfruttare come consumista.
Pochi giorni fa mi è ricapitato fra le mani il bel libro sul Mediterraneo di Fernand Braudel. C’è un passo sulla vita della civiltà che mi sembra molto attuale anche se è stato scritto più di mezzo secolo fa. Dice Braudel :” Per una civiltà vivere significa essere capace di donare, di ricevere, di prendere a prestito. Ma si riconosce una grande civiltà dal fatto che essa rifiuta talvolta di prendere a prestito, dal fatto che essa si oppone con veemenza a determinati allineamenti, dal fatto che essa fa una scelta selettiva tra quanto i proponenti lo scambio le offrono e spesso le imporrebbero se non ci fossero vigilanze o più semplicemente incompatibilità”.
 Parole molto belle per dire, in sostanza, che una grande civiltà si riconosce anche dalla capacità di rifiutare una omogeneizzazione che si tradurrebbe in perdita della propria identità.