di Claudia Tarantino

Il volume d’affari complessivo annuale delle ‘Agromafie’ è pari a 21,8 miliardi di euro ed ha registrato un balzo del 30% nell’ultimo anno. E’ quanto emerge dal quinto Rapporto #Agromafie2017 sui crimini agroalimentari in Italia, elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, presentato oggi a Roma.
Nemmeno i titoli più quotati raggiungono margini di guadagno tanto elevati. E, nel rapporto si parla addirittura di ‘approssimazioni per difetto’, visto che dalla ricerca sfuggono le attività speculative condotte esclusivamente all’estero.
La filiera del cibo, insomma, dalla sua produzione al trasporto, dalla distribuzione alla vendita, è diventata una miniera d’oro per le organizzazioni criminali, sempre pronte a diversificare i propri traffici e, secondo Coldiretti, “a sfruttare i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza 3.0”.
Lo dimostra il fatto che i più noti clan della criminalità si dividono il ‘business della tavola’, mettendo le mani sui prodotti simbolo del Made in Italy: dalle infiltrazioni nel settore ortofrutticolo del clan Piromalli all’olio extra vergine di oliva di Matteo Messina Denaro, fino alle imposizioni della vendita di mozzarelle di bufala del figlio di Sandokan del clan dei Casalesi, al controllo del commercio della carne da parte della ‘ndrangheta e di quello ortofrutticolo della famiglia di Totò Riina. Personaggi di primissimo piano che hanno deciso di investire ed appropriarsi di vasti comparti dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano, distruggendo così anche la concorrenza e il libero mercato legale, senza contare il fatto che i loro attività illecite soffocano l’imprenditoria onesta e portano nei nostri piatti prodotti che mettono a rischio la nostra salute.
Un dato particolarmente rilevante che emerge dal rapporto #Agromafie2017 è quello relativo al graduale spostamento del business delle agromafie dal Sud al Nord. Infatti, dopo il primo posto di Reggio Calabria, nella top ten delle province italiane attraversate dai traffici finalizzati al ricco mercato del falso made in Italy ci sono, al secondo e terzo posto, Genova e Verona: la prima per “il diffuso sistema di contraffazione ed adulterazione nella filiera olearia, nelle fasi di lavorazione industriale ed approvvigionamento dall’estero di oli di minore qualità da spacciare come italiani”, la seconda “sia per il fenomeno dell’importazione di suini dal Nord Europa e indebitamente marchiati come nazionali sia per l’adulterazione di bevande alcoliche, come nel caso della rinomata grappa locale”.
Nel Rapporto #Agromafie2017 è contenuto un focus specifico dedicato al ‘caporalato nel piatto’, con l’esposizione degli alimenti più a rischio presenti sugli scaffali. Quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero, infatti, non è stato fatto seguendo le normative in materia di tutela dei lavoratori vigenti nel nostro Paese. Tra gli esempi riportati dalla Coldiretti, c’è quello delle conserve di pomodoro dalla Cina, al centro delle critiche internazionali per il fenomeno dei campi agricoli lager, che secondo alcuni sarebbero ancora attivi nonostante l’annuncio della loro chiusura, oppure lo sfruttamento del lavoro delle minoranze curde per la produzione di nocciole in Turchia o, ancora quello del lavoro femminile per i fiori dalla Colombia e del lavoro minorile per la carne dal Brasile.
Per non parlare, infine, dei trattamenti a cui sono sottoposti gli alimenti, molto spesso fuorilegge in Europa, ma non nel paese di produzione, come le fragole provenienti dall’Egitto, tra i cibi più contaminati per residui chimici.
Per Coldiretti “non è accettabile che alle importazioni sia consentito di aggirare le norme previste in Italia dalla legge nazionale sul caporalato ed è necessario, invece, che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali rispettino gli stessi criteri a tutela della dignità dei lavoratori, garantendo che dietro tutti gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un percorso di qualità che
riguarda l’ambiente, la salute e il lavoro, con una giusta distribuzione del valore a sostegno di un vero commercio equo e solidale”.