Avv. Augusto Sinagra

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Augusto Sinagra

La situazione attuale sia a livello interno statuale come anche a livello comunitario di Unione europea sembra ormai irreversibilmente legata in campo economico come in campo sociale ad una scelta irreversibile di liberismo economico che vede in quella entità non chiaramente definibile e meno ancora percepibile che è il “mercato”, il perno che dovrebbe reggere tutto il sistema della produzione e del lavoro.
Un sistema imperniato, come si sa, su una rigida politica di libera concorrenza che preclude ogni possibilità di intervento statale a sostegno delle imprese.
Questa scelta apparentemente irreversibile la si propone anche a livello mondiale in nome di una “globalizzazione” alla quale non sarebbe più possibile “sfuggire”.
A parte l’equivoco giustificatorio della evocata “globalizzazione” che ha un senso solo se riferita agli strumenti della comunicazione come agli strumenti del trasporto delle persone e delle merci, ma non certo se riferita alle scelte di politica economica che devono presiedere e corrispondere alle esigenze della società e non al nuovo “vitello d’oro” costituito dal “mercato” organizzato, come si è detto, secondo il criterio assoluto della libertà di concorrenza, vi è da segnalare come la scelta di liberismo economico intesa nei modi ora sinteticamente ricordati, è sicuramente una scelta corrispondente agli interessi dei consumatori ma certamente non corrispondente né agli interessi stessi delle imprese fatalmente avviate per necessità verso conclusioni monopolistiche di mercato, e ancor meno corrispondente agli interessi dei lavoratori.
Premesso che la libera concorrenza produce necessariamente disoccupazione per i lavoratori delle imprese non in grado di reggere la concorrenza, le stesse regole della libera concorrenza sottintendendo la massima riduzione del costo dei prodotti, portano necessariamente alla necessità di ridurre i costi della produzione e per i Paesi, come l’Italia, ricchi di manodopera ma poveri di materie prime, accade fatalmente che si agisce riducendo i costi del lavoro e della assistenza e previdenza sociale, con il conseguente e noto fenomeno della “delocalizzazione” delle imprese là dove il costo del lavoro e gli oneri previdenziali e assistenziali sono più bassi (con ulteriore aumento della disoccupazione).
In ultima analisi, il lavoro che è in sé un valore e che costituisce l’unico vero fattore della produzione, viene mortificato a mera “voce di costo” nei bilanci dell’impresa, dimenticandosi del fatto che il capitale senza lavoro è solo un mucchio di soldi che non producono nulla, come anche la terra senza il lavoro non produce nulla.
Già questo dovrebbe indurre a qualche riflessione sulla necessità di riconsiderare il tradizionale insegnamento della scienza economica secondo cui i fattori della produzione sarebbero tre: la terra, il capitale e il lavoro. Nulla più falso di questo.
E tutto ciò accade in diretta violazione (o sorprendente dimenticanza) di quel che dispone la stessa Costituzione della Repubblica italiana là dove indica non solo la partecipazione agli utili da parte degli operai, ma anche la loro partecipazione alla gestione dell’impresa, e soprattutto la funzione sociale della stessa proprietà privata e la funzione sociale dell’impresa.
L’impresa non è chiamata solamente a fare profitto come pur è giusto, nella giusta misura, per l’imprenditore che investe e assume il rischio; l’impresa è chiamata soprattutto, in ragione della sua funzione sociale, a elevare il livello professionale e la dignità personale dei lavoratori e ancor di più a garantire la massima occupazione.
Tutto questo sembra ormai dimenticato, ma è storia antica che precede la stessa Costituzione repubblicana del 1948, la quale, giustamente, riproduce sul piano economico e sociale scelte già attuate in precedenza.
E’ in questo generale contesto che i Sindacati dei lavoratori sono chiamati ad un maggiore e rinnovato impegno in difesa delle ragioni dei lavoratori e di quelli che ben possono essere definiti i “diritti del lavoro”.
Un impegno del Sindacato rivolto a frenare se non a contrastare la deriva del liberismo economico che, com’è sotto gli occhi di tutti, provoca sofferenza sociale, disoccupazione soprattutto giovanile, precariato con conseguente aumento non solo delle cosiddette “fasce deboli” ma della stessa “fascia di povertà”.
Il Sindacato deve farsi carico di un’azione propositiva sul terreno della politica economica e del lavoro che, rimuovendo la scelta suicida del pareggio dei bilancio, riproponga all’attenzione la fondamentale scelta “keynesiana” dell’indebitamento per lo sviluppo. Fu così che venne superata in Italia la crisi del 1929 che fu veramente crisi economica di produzione, non come la crisi presente che è crisi monetaria nel senso di speculazione monetaria che favorisce i “centri” ora non più tanto occulti della finanza internazionale sempre più nelle mani di pochi ricchi in pregiudizio di fasce sempre più ampie di disoccupati e di poveri.
In questo senso il Sindacato dei lavoratori è chiamato ad un impegno nuovo ed esistenziale che è quello di impedire che ancora un giovane di trent’anni si tolga la vita per la insopportabilità di vivere provvisoriamente i propri giorni. Dunque, il Sindacato deve porsi come diga e garanzia anche di alto valore morale e politico.
Il Sindacato deve riscoprire le ragioni profonde del sindacalismo di Filippo Corridoni o del sindacalismo rivoluzionario di Alceste De Ambris che fu autore dello Statuto della Reggenza Italiana del Carnaro il cui testo si può ben dire che fu “messo in poesia” dal Poeta Armato, anche riscoprendo quella decima Musa “riservata alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento”, che conduca “alle trasfigurazioni ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l’ansito penoso e il sudore di sangue”. Perché riprenda vita l’antica parola dell’epoca gloriosa dei Comuni rivolta alla spiritualizzazione del lavoro umano: “Fatica senza fatica”.
Probabilmente i temi attuali dovrebbero condurre ad una riconsiderazione della straordinaria attualità dello Statuto della Reggenza Italiana del Carnaro rivitalizzandone i principi fondamentali: “il lavoro remunerato con un minimo di salario bastevole a ben vivere”; a comprendere che “unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi  mezzo di produzione e di scambio è il lavoro”; per convenire tutti sul fatto che “Solo il lavoro è padrone della sostanza resa  massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale”.
Un impegno del Sindacato che ribadisca e imponga due regole fondamentali: la prima è che ogni lavoro contribuisce in pari misura al bene comune; e la seconda che non vi sono lavori umili e lavori “alti”: ogni lavoro, qualsiasi lavoro ha pari dignità e porta uguali segni di nobiltà.
E anche la povertà ha segno di nobiltà: al mendicante che nel tentativo di baciare la mano al donatore scivolò e cadde in ginocchio, l’Orbo Veggente si pose anch’egli in ginocchio e disse: “Non io mi rialzai per primo, non ero io il più degno”.
Ecco, occorre che anche il Sindacato dei lavoratori recuperi lo spirito, quello spirito che trasforma ed eleva la stessa materia, e con ciò trasformandosi in solidarietà  e in tutto ciò che si può complessivamente indicare come assistenza e previdenza sociale.
Forse è questa la sfida epocale che deve affrontare il Sindacato dei lavoratori il quale deve pretendere non soltanto la presenza a consultazioni quanto soprattutto la diretta partecipazione nei processi decisionali che concernono la disciplina del lavoro e i diritti dei lavoratori.
Alcuni Sindacati sembra che si siano resi assenti a questo “incrocio” fondamentale della storia consentendo, da ultimo, non soltanto l’abrogazione del famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (ma forse non era questo il problema centrale), quanto il famigerato “Jobs Act” che ha reso tutti i contratti di lavoro a tempo determinato, fino alla vergogna dei “buoni lavoro”.
E il tutto nel disinteresse e nella indifferenza non soltanto di una opinione pubblica deformata dalla stampa complessivamente asservita agli interessi del liberismo economico, quanto soprattutto, e ancor prima, di una classe politica che ha rivelato tutta la sua indecenza, la sua incompetenza e la sua incapacità di interpretare istanze e sofferenze sociali segnate dal sangue di una serie interminabile di suicidi provocati dalla disperazione.