Le violente scosse di terremoto, le alluvioni e, anche le slavine (queste sconosciute fino alla scorsa settimana almeno in Abruzzo) raccontano di un territorio, il Centro Sud, fortemente devastato e sempre più vulnerabile. Ma è la storia a raccontarci – anche attraverso precedenti fatti di cronaca  –  dei forti rischi in cui incorrono le popolazioni di quasi tutto il Belpaese ogni qualvolta si parla di emergenza maltempo.  Un Paese, molto probabilmente, abituato solo a parole a fare prevenzione.

Basti un solo esempio. Il caso slavina: la Regione Abruzzo non ha mai adottato una Carta delle valanghe, che avrebbe ad esempio potuto scongiurare il dramma dell’hotel Rigopiano di Farindola. A spiegarlo, attraverso un’intervista rilasciata ad Abruzzo Web, proprio nei giorni successivi a quella tragedia, è stato l’ingegnere Dino Pignatelli, esperto di impianti a fune ed esperto abilitato di valanghe. “Anche da un’osservazione superficiale del posto – ha precisato –  si capisce che non è immune dal rischio valanghe, è sicuramente una zona esposta a valanghe, che poi negli ultimi anni non ce ne siano state non significa nulla”.

Ma di un’Italia (In)sicura ne ha fotografato i particolari l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra)  attraverso la sua ricerca (pubblicata nel 2016) dei comuni maggiormente a rischio.

Il dissesto idrogeologico è, infatti, una vera e propria ‘spada di Damocle’ per 7 milioni di persone in Italia, il 12% della popolazione dei quali oltre 1 milione vive in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata (P3 e P4), mappate nei Piani di Assetto Idrogeologico (PAI) e quasi 6 milioni vivono in zone a rischio alluvioni classificate a pericolosità idraulica media P2 con un tempo di ritorno fra 100 e 200 anni (perimetrate nell’ambito della Direttiva Alluvioni).

C’è di più, quasi 80 mila imprese sul territorio nazionale (l’1,7% del totale) sorge in aree ad elevata o molto elevata pericolosità di frana. Un disastro potrebbe coinvolgere più di 200 mila lavoratori. Il rischio maggiore per le imprese è in Campania, Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte.

Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Campania, sono le regioni con i valori più alti di popolazione a elevato rischio frana, mentre i numeri più rilevanti di popolazione a rischio alluvione, nello scenario di pericolosità idraulica media P2, si riscontrano in Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia e Liguria. A livello comunale, è a rischio l’88,3% dei comuni italiani.
Le attuali condizioni di rischio idrogeologico in Italia sono legate, sia alle caratteristiche geologiche, morfologiche e idrografiche del territorio, sia al forte incremento, a partire dagli anni ’50, delle aree urbanizzate, industriali e delle infrastrutture lineari di comunicazione, che sono spesso state realizzate in assenza di una corretta pianificazione territoriale e con percentuali di abusivismo che hanno raggiunto anche il 60% nelle regioni dell’Italia meridionale (approfondisci su http://mappa.italiasicura.gov.it e sul Geoportale ISPRA http://www.geoviewer.isprambiente.it ).
In totale, sono 7.145 (esattamente l’88,3%), i comuni a rischio frane e/o alluvioni: di questi, 1.640 hanno nel loro territorio solo aree ad elevata propensione a fenomeni franosi, 1.607 solo quelle a pericolosità idraulica, mentre in 3.898 coesistono entrambi i fenomeni.
Sette le regioni con il 100% dei comuni a rischio idrogeologico: Valle D’Aosta, Liguria, Emilia – Romagna, Toscana, Marche, Molise e Basilicata. A queste, si aggiungono Calabria, Provincia di Trento, Abruzzo, Piemonte, Sicilia, Campania e Puglia con una percentuale di comuni interessati maggiore del 90%. Sono, invece, 51 le province con il 100% dei comuni a rischio per frane e inondazioni.
I livelli elevati di pericolosità da frana e quelli medi per la pericolosità idraulica, riguardano il 15,8% del territorio nazionale, per una superficie complessiva di 47.747 km2.
Esposte, invece, al pericolo inondazione nello scenario medio, 576.535 unità, per un totale di oltre 2 milioni di addetti. Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Liguria e Lombardia, sono le regioni con il numero più elevato di imprese vulnerabili al fenomeno idraulico.
I Beni Culturali architettonici, monumentali e archeologici potenzialmente soggetti a fenomeni franosi sono 34.651 (18,1% del patrimonio totale), dei quali oltre 10.000 rientrano in aree a pericolosità elevata e molto elevata.
Nello scenario di pericolosità media delle alluvioni ricadono circa 29.000 monumenti, mentre oltre 40.000 sono i beni culturali a rischio nello scenario relativo a eventi estremi P1(meno probabili, ma più intensi). Le regioni con il numero più alto di beni a rischio nello scenario medio, sono Emilia-Romagna, Veneto, Liguria e Toscana. Tra i comuni, spiccano le città d’arte di Venezia, Ferrara, Firenze, Ravenna e Pisa. Roma si aggiunge, invece, se consideriamo lo scenario a scarsa probabilità di accadimento.
Il forte incremento del territorio urbanizzato a partire dal secondo dopoguerra assume nel contesto del dissesto idrogeologico una particolare rilevanza in quanto ha portato a un considerevole aumento degli elementi esposti e quindi del rischio. Attualmente, nelle aree classificate a più elevata pericolosità da frana si trovano 476 km2 di superfici artificiali, pari al 2,7% del totale, mentre oltre 2.000 km2 (11,5%) ricadono nello scenario di pericolosità idraulica media.
Un problema quello del dissesto idrogeologico che l’Ugl ha affrontato con l’iniziativa del ‘Sudact’. Nel documento elaborato dal centro studi Iper Ugl, in uno dei capitoli dedicati all’Ambiente e allo sviluppo, è stato più volte rimarcato che il dissesto idrogeologico rappresenta un problema strutturale che andrebbe affrontato con “la necessaria ed ordinaria” manutenzione del territorio. Bisogna tenere conto, infatti, che la pericolosità che ritroviamo in molte aree del paese è determinata anche dal progressivo e spesso non appropriato e programmato sviluppo delle aree urbanizzate, anche in territori instabili.
Per affrontare quello che ormai possiamo definire un vero e proprio stato di emergenza, occorre soprattutto fare in modo che i fondi investiti siano spesi in modo trasparente ed oculato. Nel documento Iper Ugl , infatti, si ricorda che negli ultimi 15 anni (dati relativi al periodo 2009/2012) sono stati finanziati dal Ministero dell’Ambiente quasi 5.000 interventi in difesa del suolo, dei quali circa 1.600 in cooperazione con Regioni e Province autonome, per un totale di 4 miliardi e mezzo di Euro. A questi si aggiungono altri 2,70 miliardi finanziati con Accordi di Programma Quadro ed altri strumenti regionali.
Eppure, oltre ad un corretto utilizzo dei fondi per il ripristino dell’ambiente idrogeologico, è necessaria una strategia organica e complessiva di gestione del territorio, attraverso un monitoraggio e una valutazione del suolo che sia costante e da cui possa conseguire una pianificazione che identifichi i vincoli di inedificabilità nei luoghi non sicuri e che preveda, inoltre, il recupero degli immobili esistenti piuttosto che una continua espansione dell’urbanizzazione, nonché una adeguata manutenzione del territorio urbano ed extraurbano, delle aree boschive, con le necessarie opere di rimboschimento e della rete idrica. Ed, infine, efficienti programmi di allertamento e messa in sicurezza della popolazione in caso di emergenza.