di Marco Colonna

L’ultima del governo Renzi? Attivare una riforma pensionistica che allo stesso tempo possa finanziare le banche, comprese quelle in difficoltà, attraverso una triangolazione che mette al centro l’utente e ai lati lo Stato (e l’Inps) che garantisce i pagamenti e gli stessi istituti di credito a cui spetta il compito di anticipare l’assegno al pensionato, chiamato però a corrispondere il tutto con gli interessi, con il rischio sociale ed economico che ne consegue.

Un meccanismo chiamato Ape, acronimo di Anticipo pensionistico, che scatterebbe fino a 3 anni e 7 mesi sui requisiti di vecchiaia standard con prestito bancario assicurato e rimborso ventennale collegato alla pensione ordinaria. 

Cifre esatte, platea e modalità precise di questo sistema che dovevano essere resi pubblici al termine delle consultazioni con le parti sociali il 21 settembre e che saranno chiariti nel dettaglio soltanto il prossimo 27 settembre,  data posticipata a fine mese dal premier che evidentemente ha preso atto delle perplessità emerse da più parti, anche dal fronte sindacale.

Ed è stato proprio un esponente del governo, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini, a far sorgere i primi dubbi quando ha spiegato – nelle simulazioni dell’Ape – che chi percepisce una pensione mensile di mille euro e lascia il lavoro con un anno di anticipo dovrà rinunciare a 50 euro al mese per i successivi 20 anni (in totale 12mila euro) mentre con un anticipo di tre anni si perdono 200 euro al mese, (48mila euro in 20 anni).
Una decurtazione del 18% che sfiora il 25%  se si calcolano anche i costi dell’assicurazione, eh sì perché  le banche hanno anche chiesto di cautelarsi nel caso in cui il pensionato non viva abbastanza per rimborsare tutto il prestito.
E stiamo parlando di un salasso per il pensionato che ha la fortuna di campare di più.

Il testo non è ancora definitivo e prevede una parziale deroga alla Legge Fornero del 2011, che ha stabilito per tutti, a partire dal 2018, l’età pensionabile a 66 anni e 7 mesi con 20 anni di contributi.

L’ Ape consentirebbe un anticipo pensionistico compiuti i 63 anni di età. Un meccanismo che scatterebbe fino a 3 anni e 7 mesi sui requisiti di vecchiaia standard con prestito bancario assicurato e rimborso ventennale collegato alla pensione ordinaria. Un intervento sperimentale per 2 anni che riguarderà, per ogni singolo anno, le generazioni che hanno fino a tre anni in meno dell’età legale di pensionamento e dunque i nati tra il ’51 e il ’53 dal 2017 e quelli tra il ’52 e il ’55 dal 2018.

Una misura che il governo vorrebbe inserire nella legge di Bilancio  2017 e che dovrebbe interessare tutti i dipendenti pubblici e privati ed anche gli  autonomi  come: partite Iva, artigiani e commercianti. Un popolo di migliaia di persone , clienti “ideali” in fila allo sportello bancario.

Uno scenario evidentemente allettante per Renzi e le banche ma che non ha convinto del tutto i sindacati, soprattutto perché non fornisce risposte alle quattro categorie ancora a rischio: i lavoratori precoci che non possono andare in pensione per la mancanza del requisito anagrafico, gli usurati, gli esodati e chi ricade nell’esperimento (fallito) dell’opzione donna, pochissimi i soggetti che hanno deciso di accettare l’approdo in pensione con il sistema contributivo che prevede penalizzazioni di circa il 30% rispetto al calcolo con la pensione di vecchiaia.

Per non parlare dei giovani – categoria assente nella prossima manovra di bilancio – che dovranno smettere di lavorare tardissimo, portando a casa una miseria, come prevede la riforma Fornero: chi non matura i requisiti per l’uscita dal lavoro, potrà conquistare l’agognata pensione soltanto a 70 anni compiuti, una soglia destinata ad alzarsi progressivamente seguendo l’aspettativa di vita.