L’ Istat , nella nota pubblicata il 31 agosto 2016, ha rilevato il primo calo degli occupati dopo 4 mesi di lievissima, diciamo pure microscopica, crescita (+0,4% a marzo, +0,5% ad aprile, +0,2% a maggio e giugno).
A luglio 2016: – 0,3% rispetto al mese di giugno (-63 mila), un calo che interessa soprattutto le donne.
In compenso crescono gli occupati con contratto a termine : +3,1% da maggio a luglio (su febbraio-aprile), segno che la piaga della precarietà e’ dura a morire. Posto che i contratti a tempo indeterminato rappresentano in media non più del 22% del numero complessivo.

Ma i dati Istat sono inequivocabili e certificano , oltre che la debolissima crescita occupazionale registrata negli ultimi tempi, anche la difficile congiuntura che coinvolge i lavoratori autonomi, una categoria che dall’inizio della crisi economica ha pagato uno dei prezzi più alti. Ovvero, la diminuzione di circa un punto percentuale ogni anno dal 2008 al 2012 e di circa due punti percentuali tra il 2012 e il 2015. Un calo di 68 mila soltanto nel mese di luglio. Una flessione di 552 mila unità nel periodo compreso fra il 2007 e il 2015 secondo Confesercenti.

Nel 2° trimestre dell’anno i precari sono aumentati più dei lavoratori con posto fisso e a giugno aveva fatto discutere gli analisti l’ennesimo aumento del numero dei disoccupati (+27 mila).

Le imprese che dovevano stabilizzare i precari con le agevolazioni del jobs act lo hanno già fatto. Ed è definitivamente alle spalle il mese di dicembre 2015 che ha visto il boom di assunzioni stabili in azienda grazie agli ultimi esoneri contributivi al 100% previsti nel jobs act. Con il «contratto a tutele crescenti», pilastro del Jobs Act, che nei fatti contribuisce solo per l’1% sull’occupazione complessiva e il resto per effetto degli incentivi.

Intanto, in assenza di una vera e propria ripresa dell’economia, con gli  investimenti tracollati di un quarto dalla grande crisi , le nuove assunzioni sono tornate nello stato di torpore dei tempi più bui.

Al netto della propaganda renziana, e come avevamo previsto e ben visto in altri articoli di Meta Sociale , siamo al flop della politica dei bonus sull’occupazione, al fallimento del Jobs Act.
Un fallimento oneroso per le casse pubbliche, visto che tutta l’operazione sgravi-assunzioni costerà allo Stato circa 17 miliardi nell’arco di 7 anni complessivi, considerando quelli che i tecnici chiamano i trascinamenti.

Da indiscrezioni di stampa il governo Renzi è pronto a cambiare rotta e si appresta a rafforzare la produttività, immobile da oltre un ventennio, agendo sulla leva fiscale, magari ampliando la detassazione sui premi aziendali di risultato. Eè allo studio anche la riforma della contrattazione.

Ad oggi , il modello contrattuale è sempre stato concordato tra le parti sociali , ma il governo è pronto a rispolverare il modello anticipato nell’autunno dello scorso anno: con l’introduzione del salario minimo legale, lo spostamento in ambito territoriale e aziendale anziché su quello nazionale del baricentro contrattuale, la riduzione del ricorso agli scioperi nei servizi pubblici e – cavallo di battaglia, un vero e proprio chiodo fisso di Renzi – una stretta sulla rappresentanza sindacale.

Una “ricetta” che porta una precisa firma , quella della Banca centrale europea che nella famosa lettera inviata , nell’agosto 2011,  al governo italiano, chiedeva già di riformare la contrattazione e rendere gli accordi aziendali “più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”.

Una soluzione che aveva innescato il blocco di ogni accordo governo-confindustria-sindacati, con questi ultimi che avevano bocciato l’idea di puntare su un modello basato sulla contrattazione decentrata, con il timore evidente che la minore forza contrattuale dei lavoratori nelle singole imprese possa aprire la strada a un potere unilaterale nelle mani del datore di lavoro.

di Marco Colonna