E’ sotto la regia della criminalità organizzata che i caporali  ‘accolgono’ gli schiavi dei campi in una trappola – il più delle volte – mortale. Un esercito di uomini, donne, ma anche bambini di diverse culture e provenienza ancora ‘invisibile’ (purtroppo) agli occhi di una società frenetica e ancora distante dal fenomeno che indebolisce e distrugge l’economia sana del Paese. “Questa è una premessa doverosa perché il binomio criminalità – caporalato non è una scoperta dei tempi moderni ma un cancro da estirpare”.

Luciano Lagamba, Presidente Sei Ugl

Luciano Lagamba, Presidente Sei Ugl

Queste le parole di Luciano Lagamba, Presidente del Sei Ugl, su una delle questioni più spinose e delicate del momento: il caporalato. “Per poter sradicare la piaga dello sfruttamento e della distruzione fisica e mentale di questi lavoratori – perché altro non è che un duro colpo inferto alla dignità dell’uomo – non basta l’attenzione mediatica, né i continui monitoraggi estesi su tutto il territorio nazionale, ma azioni incisive: leggi e pene più severe ed immediate dirette a punire ‘le braccia’ (i caporali) e le teste (i clan) che alimentano questo fenomeno. La gestione del mercato del lavoro (e in particolare nella filiera agroalimentare), infatti, costituisce un vero e proprio terreno di conquista per la criminalità. In alcuni casi lo sfruttamento in agricoltura viaggia di pari passo con il fenomeno della tratta degli esseri umani.

Il fenomeno delle agromafie e dell’infiltrazione mafiosa e criminale nella gestione del mercato del lavoro attraverso la pratica del caporalato sono due business che – secondo l’ultimo rapporto della Direzione Investigativa Antimafia –  muovono un’economia illegale e sommersa tra i 14 e i 17,5 miliardi di euro in Italia.

Su tutto il territorio nazionale – si legge nell’ultimo Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia elaborato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura – sono 26.200 i terreni nelle mani di soggetti condannati in via definitiva per reati che riguardano tra l’altro l’associazione a delinquere di stampo mafioso e la contraffazione, anche perché il processo di sequestro, confisca e destinazione dei beni di provenienza mafiosa si presenta lungo e confuso, spesso non efficace e sono numerosi i casi in cui i controlli hanno rilevato che alcuni beni, anche confiscati definitivamente, sono di fatto ancora nella disponibilità dei soggetti mafiosi.

Proprio per sollecitare un contrasto più deciso al fenomeno, la Coldiretti ha chiesto di intensificare i controlli in tutta la filiera che porta dal campo al consumatore finale di ortofrutta. Inoltre, ai ministri dell’Agricoltura, Maurizio Martina, e della Giustizia, Andrea Orlando, viene chiesto di completare l’iter legislativo e applicativo delle norme sul caporalato e sulla confisca e successiva gestione dei beni appartenuti alla criminalità organizzata. Materia che con grande sensibilità e concretezza sta seguendo il nostro sindacato unitamente all’on. Renata Polverini, Vice Presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati di Forza Italia.

A essere colpito dalle agromafie è soprattutto il Sud, dove — specie in alcune province — il controllo da parte di mafia, camorra e ’ndrangheta è diffuso e capillare: “In regioni quali la Calabria e la Sicilia si denota un grado di controllo criminale del territorio pressoché totale, al pari della Campania — si legge nel Rapporto — Il grado di controllo e penetrazione territoriale della Sacra corona unita in Puglia, invece, pur mantenendosi significativamente elevato, risulta inferiore che altrove così come in Sardegna, regione dove all’elevata intensità dell’associazionismo criminale non corrisponde di pari grado l’egemonia di un’unica organizzazione”.

Ma se il Mezzogiorno la fa da padrone, questo non vuol dire certo che altre zone d’Italia siano immuni: una “forte e stabile presenza” delle agromafie è stata riscontrata nel Centro, in Abruzzo e in Umbria, in alcune zone delle Marche, nel Grossetano e nel Lazio, in particolar modo a Latina e Frosinone. Anche al Nord il fenomeno presenta un grado di penetrazione importante in Piemonte, nell’Alto lombardo, nella provincia di Venezia e nelle province romagnole lungo la Via Emilia.