di Marco Colonna

Dal 2008 al 2015, due milioni e mezzo di lavoratori italiani sono stati pagati con 277 milioni di voucher Inps da 10 euro lordi, ovvero 7,5 euro netti, corrispondenti al compenso minimo di un’ora di lavoro.

In otto anni dalla prima sperimentazione – quando cioè il ticket, così come pensato nella riforma Biagi del 2003, era previsto solo per la vendemmia ed era destinato a pensionati e studenti ma non ai lavoratori – i cosiddetti “buoni lavoro” hanno conosciuto un vero e proprio boom soprattutto nel comparto turistico, del commercio e dei servizi dove è ampio il ricorso all’attività stagionale.

Questo strumento era nato per contrastare parte dell’imponente fenomeno del lavoro nero che ancora attraversa il tessuto economico italiano, tuttavia la vastità e la ricorrenza del suo impiego ai giorni nostri sembra ipotizzarne un uso improprio.

Ed è la banca dati dell’Inps che nell’ultima stima del 2015 a rilevare che a fronte della vendita di 115.079.713 voucher ne sono stati riscossi solo 87.981.801, con una differenza di quasi 30 milioni di voucher di lavoro prenotato e non riscosso.

Ovvero circa 300 milioni di euro, 600 miliardi di vecchie lire, mai pagati al popolo dei voucheristi.

Una (sfortunata) categoria che nel 2008 poteva contare su 24.437 persone e nel 2015 è esplosa fino alla cifra mostruosa di 1.392.906, il 31 per cento delle quali under 25, giovani senza lavoro costretti a cogliere ogni opportunità.

E la situazione è degenerata a causa della scelta del governo Monti/Fornero di eliminare ogni vincolo sulle attività consentite (inizialmente i settori: vinicolo, domestico e porta a porta) cancellando anche il riferimento all’occasionalità della prestazione d’opera.

Ma come è composto il popolo dei voucheristi? In base all’indagine Inps del maggio scorso, i lavoratori retribuiti con i buoni-lavoro nel 2015 sono stati complessivamente 1 milione 380mila, di cui un terzo (il 29 per cento) occupato presso aziende private: fra questi, il 46 per cento ha un contratto a termine.
Un altro 26 per cento è rappresentato da disoccupati senza sussidi: soprattutto donne (57 per cento).
Il 18 per cento sono percettori di ammortizzatori sociali, mentre gli inoccupati rappresentano il 14 per cento, nella stragrande maggioranza dei casi giovani intorno ai 20 anni.
I pensionati sono l’8 per cento, per lo più impiegati in agricoltura, mentre un altro 8 per cento è composto da lavoratori di vario tipo, tra cui domestici, parasubordinati, operai agricoli, autonomi, professionisti e dipendenti pubblici.

Nel 2015 si calcola almeno l’8 per cento dei lavoratori italiani sia stato retribuito con i voucher.

Il Consiglio dei ministri ha approvato pochi giorni fa un decreto legislativo che prevede, fra l’altro, “una piena tracciabilità del voucher”, ma le promesse del governo Renzi – come nel caso del programma “Garanzia giovani” – sono da prendere al netto della propaganda e dunque atteniamoci ai dati concreti.

Sì, perché proprio le misure del Jobs act renziano – che ha alzato il tetto retributivo dei voucher fino a 7.000 euro netti l’anno (9.333 euro lordi) – ne hanno reso più libero e dunque incontrollato l’utilizzo.

Mentre l’unica strada per impedirne l’abuso sarebbe quella di restringerne il campo e far tornare i voucher nell’alveo originario degli “small jobs” , i lavoretti di studenti e pensionati per arrotondare: come il baby sitting o i piccoli lavori agricoli.

Ma, intanto, al contrario, il ricorso allo strumento delle retribuzioni con ticket orario appare particolarmente rilevante in alcune aree del Paese a forte trazione turistica, dove il comparto del lavoro stagionale muove l’economia.

Come, per esempio, in Toscana, Veneto (nel 2015 sono stati venduti oltre 15 milioni di voucher) ed Emilia-Romagna, la capitale del “divertimentificio”, in particolare nella costa ravennate, dove nel 2015 i buoni lavoro sono stati oltre un milione e mezzo, o nel riminese e nella provincia di Forlì-Cesena, i cui voucher, insieme, superano quelli di un’intera area industriale e manifatturiera come quella modenese.

L’Ugl avverte: “Dietro i voucher può celarsi non soltanto la forma estrema del precariato ma anche quella del lavoro nero e dello sfruttamento. Una piaga che danneggia e rende ancora più incerti gli occupati e che crea un danno considerevole alle imprese oneste che usano le forme di lavoro previste dai contratti”.

E’ di tutti i giorni la cronaca di alcuni casi di datori di lavoro disonesti che hanno chiesto indietro quasi tutti i voucher, limitandosi a pagare il lavoratore con un compenso forfettario e in nero e provvedendo successivamente a farsi rimborsare dall’Inps l’intero volume dei “buoni lavoro” inutilizzati.