di Marco Colonna

 

I contratti dei dipendenti pubblici in attesa di rinnovo sono bloccati dal 2010 ( l ’ultimo, infatti, è scaduto nel lontano 2009) e il governo Renzi prende tempo.
Il rinnovo per il triennio 2010-2012 fu cancellato con il decreto legge 78 del 2010 (con il governo Berlusconi) e uguale sorte hanno imposto i governi che si sono succeduti : dal 2011 al 2013 con il premier Monti, dal 2013-2014 con Letta e al 2015 con presidente del consiglio Matteo Renzi.
In termini di mancato aumento salariale in rapporto all’inflazione programmata, secondo la Corte dei Conti, un dipendente ministeriale o un dipendente base con uno stipendio di 26 mila euro ha perso circa 2.700 euro lordi all’anno. E le cose non cambiano salendo di livello: per un dirigente di seconda fascia si calcola una perdita di 8.372 euro annui, per i vertici amministrativi di una somma intorno a 18mila euro lordi, per i dirigenti di prima fascia degli enti pubblici non economici (Inps, Aci, Istat, etc…) si sfiora quota 20 mila euro.
L’estate scorsa, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico imposto dalla Legge Fornero, ma ha vincolato gli effetti della decisione solo a far data dalla pubblicazione della sentenza in avanti, cancellando i diritti acquisiti nel passato dai lavoratori della Pubblica amministrazione”.

Ovvero: la sentenza della Consulta non obbliga a versare gli arretrati, ma solo a sbloccare gli scatti.  Nota positiva e prevedibile? La Corte Costituzionale ha imposto allo Stato di tornare al tavolo delle trattative con i sindacati.
Per far valere i loro diritti negati e contestare gli effetti discriminatori del blocco totale di qualsiasi incremento o adeguamento retributivo che si protrae da oltre sei anni, intere categorie professionali del pubblico impiego (ufficiali delle Forze armate e dei Corpi di polizia dello Stato ad ordinamento militare , professori e ricercatori universitari di vari Atenei italiani….) hanno promosso azioni collettive dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e ottenere la condanna del Governo che non ha ottemperato alla sentenza della Corte Costituzionale.
I sindacati – Ugl in testa – protestano per chiedere il risarcimento del mancato rinnovo contrattuale. La situazione e’ ormai insostenibile.
Per sbloccare i contratti e adeguarli agli aumenti Istat sarebbero necessari quasi 13 miliardi di euro. Manco a dirlo, soldi da spendere che il governo Renzi non ha.
Per il rinnovo della parte economica del contratto dei dipendenti pubblici nell’ultima legge di stabilità si prevedono soltanto 300 milioni di euro per il 2016. In media, 5 euro di aumento al mese per ogni dipendente.
Una cifra insufficiente, anzi, irrisoria e lontana da quanto promesso in estate dal ministero dell’Economia: 486 euro annui, ovvero 37 euro lordi in più al mese.
Il segretario generale dell’Ugl, Francesco Paolo Capone, commentando gli ultimi dati Istat che parlano “di una enorme quota, oltre 8,1 milioni, di lavoratori dipendenti, di cui 2,9 nel pubblico impiego, in attesa di rinnovo del contratto di lavoro” ha ricordato che “senza rinnovo dei contratti di lavoro, deflazione e stagnazione aumenteranno” e si continua subire una prassi – la resistenza tutta italiana a rinnovare i contratti di lavoro da parte delle imprese tanto quanto dello Stato – “ormai cronica e sottovalutata” che a sentire il governo “non è materia di discussione in nessun consesso internazionale”.
Il nodo politico da sciogliere prima di passare a discutere del rinnovo dei contratti nel pubblico impiego è quello proposto dal governo, ovvero la riduzione dei comparti in cui si dividono i dipendenti statali fino a un massimo di quattro. Oggi i comparti pubblici sono 12, e secondo le intenzioni del governo Renzi dovranno essere divisi in 4 aree: Amministrazioni centrali, Scuola, Sanità, e Regioni ed autonomie locali.
Il governo ha ricordato che “tagliare i comparti è soprattutto un obbligo di legge” ed ha ricordato che: “lo impone la riforma Brunetta del 2009”, rimasta finora inattuata.
Se non ci saranno ostacoli , con il varo dei provvedimenti attuativi della legge che porta il nome del ministro della P.A, Marianna Madia (contratto semplificato e articolato in una “parte Comune” e in una o più “parti Speciali”), la riforma del pubblico impiego vedrà la luce – assicurano gli analisti economici – non prima di questa estate.
Il confronto fra l’Aran, in rappresentanza del governo, e i sindacati – a convocazioni spedite – è alle porte , ma incombe un altro limite: quello delle risorse disponibili comunque esigue che il governo Renzi s’ è detto disposto a sbloccare per il settore del pubblica amministrazione.
“L’obiettivo prioritario della riduzione in quattro comparti della contrattazione nel Pubblico Impiego è prima di tutto livellare verso il basso la media degli stipendi. Non siamo di fronte ad una vera riforma, ma ad un selvaggio ‘taglia e cuci’ con il solo scopo di risparmiare”: ha dichiarato il segretario confederale dell’Ugl, Augusto Ghinelli, aggiungendo che “è impossibile risparmiare o, peggio, fare riforme a costo zero senza tenere conto delle specificità professionali e retributive della Pubblica Amministrazione. Meritocrazia ed efficienza sono solo parole ad uso e consumo della propaganda. Con la riduzione in quattro comparti il governo vuole inoltre falcidiare la rappresentanza sindacale e cancellare i voti delle ultime elezioni Rsu ottenuti da ogni sigla sindacale negli 11 comparti, annacquandoli nei 4 più grandi e scavalcando anche il diritto costituzionale dei lavoratori di essere rappresentati dal sindacato che preferiscono”. “L’Ugl –ha concluso Ghinelli – continuerà a chiedere al ministro Madia l’apertura immediata dei tavoli per i rinnovi dei contratti fermi dal 2009. Solo in seguito, si potrà affrontare la riduzione dei comparti, ma attraverso un vero confronto tra governo e parti sociali”.