La crescita e l’innovazione tecnologica sono un’opportunità, anche sotto il profilo occupazionale, purché siano messi in campo degli strumenti – dalla risorse per la formazione all’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione sulla partecipazione dei lavoratori per favorire relazioni industriali più efficaci ed efficienti – con l’obiettivo di monitorare e guidare il cambiamento sia nel pubblico che nel settore privato.
Questo il testo presentato dall’Ugl, rappresentata da Fiovo Bitti, in audizione davanti alla Commissione Lavoro della Camera, nell’ambito della discussione congiunta delle risoluzioni concernenti iniziative in materia di occupazione in relazione agli sviluppi dell’innovazione tecnologica. Per il sindacato “si tratta di una partita complessa nella quale la pubblica amministrazione ha un ruolo decisivo. Purtroppo, è proprio nella pubblica amministrazione che è mancata la volontà di procedere alla riqualificazione del personale dipendente”.
“L’innovazione – si legge nel documento – è vista come costo e non come investimento, stesso limite che si registra spesso anche nel settore privato. L’innovazione tecnologica diventa causa di disoccupazione, laddove le imprese, puntando a massimizzare i benefici immediati, non tengono nella dovuta considerazione l’adeguamento professionale del personale, l’ammodernamento dei macchinari, il costante aggiornamento delle procedure con le quali si interfacciano con i clienti. In carenza o in assenza di ciò, l’impresa è destinata nel tempo ad essere meno competitiva, ponendosi, quindi, a rischio tenuta, con tutto quello che ne consegue in termini di posti di lavoro persi o fortemente in bilico”.
La vera chiave di volta si ritrova dunque “nella formazione continua e in relazioni industriali maggiormente partecipative. In Italia, fra il 6 e l’8% della popolazione fra i 25 e i 64 anni fruisce di corsi di formazione, in linea con la Germania, ma quasi tre punti percentuali sotto rispetto alla media europea e lontano dai 10 ai 20 punti percentuali con i Paesi scandinavi”.
“Nello specifico delle risoluzioni – si legge nel testo -, la riduzione dell’orario di lavoro è tema delicato che andrebbe lasciato alla contrattazione collettiva e non sottoposto ad intervento di legge, tenendo conto di fattori diversi come la difesa del potere d’acquisto degli stipendi e la copertura previdenziale, mentre l’istituzione della sola Agenzia nazionale per le politiche attive non è sufficiente per realizzare un efficace sistema di mediazione fra domanda ed offerta di lavoro”.
Per quanto riguarda la risoluzione Cominardi, essa impegna “il Governo su quattro punti, ad iniziare dalla promozione di una indagine conoscitiva ministeriale per verificare l’incidenza dell’innovazione tecnologica degli ultimi decenni sull’occupazione, nel settore pubblico e privato. Giusta l’esigenza di conoscere in maniera approfondita le dinamiche occupazionali, ma il soggetto deputato a promuovere tale analisi dovrebbe essere il Parlamento, attraverso una periodica indagine conoscitiva. Con il secondo impegno, si chiede al Governo di promuovere iniziative normative di adeguamento degli strumenti contrattuali esistenti, anche attraverso iniziative volte a ridurre progressivamente l’orario di lavoro, al fine di migliorare la conciliazione tra la giornata lavorativa e la vita familiare e sociale”.
fotoSu questo punto secondo l’Ugl è bene far presente che “il promotore non sembra sostenere la riduzione dell’orario di lavoro per legge, quanto piuttosto un intervento su alcuni elementi volti a favorire la riduzione dell’orario di lavoro per via contrattuale” ipotesi che è sicuramente preferibile. Esecutivo e Parlamento possono incoraggiare la riduzione dell’orario di lavoro attraverso incentivi a carattere fiscale e contributivo, così da mantenere inalterato il potere d’acquisto del dipendente. In questo senso si muove il decreto legislativo 148/2015, per la parte relativa agli accordi collettivi di solidarietà espansiva, con il part time dei lavoratori maturi e la conseguente assunzione di nuovo personale. Tale misura, però, rischia di avere un utilizzo ridotto, visto che nella legge di stabilità è prevista l’ipotesi di part time incentivato per i lavoratori vicini al pensionamento senza obbligo alcuno di assunzione di nuovo personale in sostituzione. Per le aziende, questa seconda opzione è sicuramente meno costosa della precedente”.
“In terzo luogo, la risoluzione impegna il Governo ad intervenire a livello normativo per migliorare il rapporto tra istruzione e lavoro, incrementando l’offerta formativa soprattutto nei settori ad alta specializzazione tecnologica. In questo senso, il decreto legislativo 81/2015, intervenendo sul contratto di apprendistato, dovrebbe, nelle intenzioni dell’Esecutivo, favorire l’alternanza scuola-lavoro ed un maggiore impiego dell’apprendistato di terzo livello, relativo all’alta formazione e ricerca. Ciò non è immediato in quanto dipende in larga parte dalle decisioni che vorranno prendere le imprese e non è neanche esaustivo rispetto alle finalità della presente risoluzione, poiché il vero gap formativo si registra non tanto fra i giovani, quanto, piuttosto, fra i lavoratori adulti”.
La partita si sposta quindi sui risultati che potranno arrivare dal decreto legislativo 150/2015, sempre attuativo della delega contenuta nella legge 183/2014. L’istituzione dell’Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal), per quanto positiva, poiché volta a favorire la creazione di una rete fra i diversi soggetti che si occupano di intermediazione fra domanda ed offerta di lavoro, non è sufficiente, perché necessita di risorse adeguate per garantire sull’intero territorio nazionale i medesimi servizi.
Il potenziamento dell’Anpal è anche necessario per meglio individuare i settori ove concentrare i programmi formativi. La risoluzione punta sui settori ad alta specializzazione tecnologica; sarebbe probabilmente più utile guardare alle persone al fine di individuare le fragilità (età, sesso, formazione di base) sulle quali intervenire in via prioritaria.
“Da ultimo, la risoluzione Cominardi impegna il Governo a promuovere in sede comunitaria un’agenda per incentivare gli impieghi tecnologicamente innovativi. Si tratta di una esigenza condivisa. In quest’ottica, è utile dare piena attuazione allo Small Business Act per le piccole e medie imprese europee, approfondendo le problematiche relative alla disoccupazione tecnologica e alle difficoltà di adeguamento ed aggiornamento delle modalità produttive delle Pmi”.
“La risoluzione Tinagli – si legge ancora -, al primo dei tre punti, impegna il Governo a promuovere la creazione di un osservatorio permanente sulle dinamiche e le evoluzioni del mercato del lavoro e dell’impatto delle nuove tecnologie sull’evoluzione delle competenze e delle figure professionali, nell’ambito di una collaborazione tra i Ministeri competenti e gli enti di ricerca e di statistica nazionali ed internazionali. Si tratta di una previsione in linea principio condivisibile anche se tale osservatorio non può prescindere dalla partecipazione delle organizzazioni sindacali e delle associazioni datoriali, le quali, direttamente o per il tramite dei fondi interprofessionali per la formazione continua, hanno diretto sentore di quelle che sono le tendenze in atto”.
“Al secondo punto, si chiede al Governo di promuovere e supportare, attraverso l’azione ed il coordinamento dell’Anpal, la creazione di specifici progetti formativi per la riqualificazione costante dei lavoratori a maggior rischio di sostituzione od obsolescenza a causa delle innovazioni tecnologiche. A differenza della risoluzione Cominardi, in questo caso l’attenzione è rivolta alle persone, cosa preferibile, e non genericamente ai settori. Rimane l’osservazione già formulata sulle risorse disponibili. In terzo luogo, si impegna il Governo alla promozione di misure per rafforzare gli investimenti in ricerca e sviluppo, sia nel pubblico che nel privato, e nell’ammodernamento tecnologico delle imprese. Si tratta di un impegno condivisibile, per quanto generico, su temi oggetto da tempo di confronto e di analisi. Sarebbe utile introdurre elementi più stringenti, considerando che di ricerca e sviluppo si parlava, ad esempio, anche nel Protocollo sulla politica dei redditi del 23 luglio 1994”.