di Barbara Faccenda

Se il mondo di Trump è quello in cui il forte impone il suo volere sul debole, il mondo di Pechino è quello in cui gli strumenti della soft power fanno lavorare la geopolitica e la geoeconomia sulla stessa lunghezza d’onda.
La soft power, termine che Joseph Nye introdusse nel 1990, è l’abilità di uno Stato di ottenere alleanze o influenza attraverso la persuasione o seduzione piuttosto che attraverso la costrizione. Trump è circondato da consulenti che deridono la soft power considerandola un giro di parole per dire debole o senza potere. Se seguissimo il ragionamento di Trump e l’hard power fosse la sola forza ad essere efficace, gli Stati Uniti, economicamente e militarmente la nazione più forte, dovrebbero vincere in tutte le questioni con tutti gli interlocutori, ma ciò nella passata decade e mezza non è affatto avvenuto.
La soft power è molto efficace quando è complementare con il possesso di credibile hard power, quello che poi Nye definì “smart power”. L’interazione dinamica tra hard power e soft power può essere evidenziata con l’esempio della disastrosa invasione americana in Iraq nel 2003. Questa fu nient’altro che un’esibizione della potenza militare, circostanza che dissipò completamente la soft power di Washington visto che l’intervento militare fu ampiamente percepito come illegittimo. In più, dato il catastrofico risultato, indebolì anche l’hard power dimostrando che una schiacciante superiorità militare non conduce inevitabilmente ad una vittoria strategica. Il risultato complessivo fu quello di una diminuzione dell’abilità americana di deterrenza e coercizione.

Le scelte della Cina sono differenti.

Il lavoro del governo cinese per migliorare il suo profilo nel Medio Oriente è stato difficile, soprattutto quando si è trattato di promuovere la cultura cinese nella Regione cercando di eclissare i suoi rivali asiatici. Per questo motivo è stato sorprendente assistereai festeggiamenti del nuovo anno cinese in Medio Oriente di uomini d’affari e persone ordinarie in una portata che non si era mai vista prima. La Cina ha esteso la soft-power anche alla televisione. QuestArabiya, un affiliato di Discovery Channel in lingua araba basato ad Abu Dhabi, ha prodotto una serie di programmi speciali che mostrano la storia e la cultura cinese, alcuni di questi programmi erano produzioni originali create appositamente per un pubblico arabo. Il Centro di comunicazione intercontinentale cinese, un’impresa appoggiata dal governo cinese, ha versato 300 milioni di dollari nelle casse del canale proprio il novembre scorso.
Il Medio Oriente è diventato per Pechino un terreno di prova su cui misurare la sua abilità di non coinvolgersi direttamente in affari interni degli Stati della Regione e la sua agenda economica in continua evoluzione.
La Cina sta quindi lentamente, ma decisamente, cambiando la sua posizione da esportatore globale a investitore e creditore.

La Cina ci dimostra come la geoeconomia lavori a fianco a fianco con la geopolitica.
L’ambiziosa iniziativa cinese lanciata nel 2015 del One Belt One road (OBOR), l’equivalente moderno della Via della Seta ha radunato l’interesse e la partecipazione di più di 60 paesi con un prodotto interno lordo congiunto di 21 bilioni di dollari. La Cina ha firmato accordi di cooperazione bilaterale con l’Ungheria, la Mongolia, la Russia, la Turchia, per fare alcuni esempi. Un certo numero di progetti sono in esecuzione incluso un collegamento ferroviario tra la Cina dell’est e l’Iran che potrebbe espandersi all’Europa.
L’Egitto, ad esempio, è parte di OBOR, ma il suo ruolo non è solo legato alla costruzione di infrastrutture ed i potenziali benefici della Cina non sono meramente economici. La Cina è stata un partner consistente dell’Egitto malgrado gli anni di instabilità politica risalenti alle “arabspring” del 2011. La più significativa, recente, interazione economica della Cina con l’Egitto è il currency swap (scambio di valuta) di 2,6 miliardi di dollari che i due paesi hanno concluso nel dicembre scorso. L’accordo ha rifornito le riserve egiziane di valuta straniera ed ha aiutato l’Egitto a mettere al sicuro 12 miliardi di dollari di prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale.
È importante tenere a mente che Pechino ha inquadrato l’iniziativa OBOR come un’opportunità di accrescere le connessioni culturali in paesi dell’Asia e dell’Africa, non meramente come un programma di investimento economico: vale a dire si è servita degli strumenti della soft power per essere presente sugli scacchieri internazionali.
Il governo cinese è stato abile negli anni recenti a trarre vantaggio dai casi di instabilità per rafforzare il suo messaggio ideologico: la differenza di approccio nel Medio Oriente rispetto agli Stati Uniti. Da una parte Washington che vanta una lunga storia di intromissione nelle crisi della Regione e dall’altra parte la Cina, che si rappresenta come un paese che preferisce fare un passo indietro e permettere agli attori locali di comporre le loro differenze. Un esempio significativo è quello del gennaio 2011, quando iniziarono le proteste contro il regime di Mubarak. Il governo cinese immediatamente evacuò ogni cittadino cinese residente in Egitto el’ambasciata cinese al Cairo con uno schermo grande, visibile a tutti, mostrava i cittadini cinesi all’aeroporto del Cairo, sventolando bandiere cinesi e aspettando pazientemente di essere evacuati. Questa è la dimostrazione, appunto, dell’abilità di Pechino d’ingaggiare una regione che è spesso distrutta dai conflitti.
Ed è il corridoio economico Cina – Pakistan descritto spesso come il più importante progetto dell’OBOR la prova che la geoeconomia opera a fianco della geopolitica allo scopo, in questo caso, di spingere Pechino e Islamabad più vicino. Diversi fattori guidano l’intensificazione dei legami tra la Cina ed il Pakistan. Il primo è la crescente convergenza strategica tra l’India e gli Stati Uniti. Un consenso bipartisan a Washington favorisce il sostegno a Nuova Delhi contrapposto a Pechino che è percepito come una minaccia di lungo termine. Quando questo consenso si è rafforzato, le relazioni tra Islamabad e Washington si sono deteriorate. Pechino, allo scopo di controbilanciare gli sforzi indo-americani, percepiti come una minaccia alla propria sicurezza, ha ritenuto che il consolidamento dei rapporti con Islamabad, rivale di lungo corso di Nuova Delhi fosse la migliore strada percorribile.
I benefici che trae il Pakistan dal corridoio economico Cina – Pakistan convergono attorno al settore energetico, riducendo le carenze di elettricità del Pakistan per il 2019, e al sistema del trasporto ferroviario e stradale, migliorando così la competitività delle esportazioni pakistane. Non trascurabile la circostanza per cui questo corridoio riabilita la reputazione del Pakistan, che nel 2007 fu definito dal Newsweek come il paese più pericoloso al mondo, facendolo diventare uno dei paesi all’apice del mercato emergente.
Molti definiscono i leader cinesi come poco coraggiosi per la loro mancanza di un impegno politico estero genuino, tuttavia il principio di non-intervento e la soft power, resa efficace da una credibile hard power, nel lungo termine potrebbero rivelarsi più appaganti di una politica basata sulforte che impone il suo volere al più debole.