di Vincenzo Fratta
La sinistra in tutte le sue declinazioni – giacobina, positivista, marxista, «politico-correttista» o individualista-libertaria – è sempre stata abile in quella che è stata definita la «guerra delle parole», ossia la capacità di modificare a suo uso e consumo il significato di un termine, o addirittura di crearlo ex novo, caricandolo di significati negativi da imporre all’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa per poi utilizzarlo come arma dialettica contro i suoi avversari. Alcuni esempi sono ormai «classici», come l’uso dell’epiteto di «fascista» per bollare gli oppositori o del termine «revisionista» per screditare quegli studiosi che portano avanti approfondimenti storici poco graditi. Più recente ed eclatante è l’invenzione dei neologismi «omofobia» e «omofobo» da affibbiare come un marchio di infamia a chiunque non si dimostri un acceso paladino dell’omosessualità.
Sul piano politico, la vecchia accusa di «fascismo» risulta ormai difficilmente praticabile e la si vede rispolverare ormai di rado. Al suo posto, per stigmatizzare l’avversario, si usa ora il termine «populismo», volendo far intendere un concezione «demagogica» della politica, incentrata sull’«adulazione sistemica della folla» di norma accompagnata «dall’appello agli istinti più bassi».

In Italia era populista il Berlusconi premier con Forza Italia sulla cresta dell’onda, oggi lo sono il movimento Cinque Stelle e la Lega.  A livello europeo sono inseriti nella categoria dei «populismi» tutti quei movimenti politici emergenti che si discostano dai due partiti, conservatori e progressisti, che da decenni si alternano alla guida dei rispettivi paesi: Cdu e Spd in Germania, Gollisti e Socialisti in Francia, Tory e Labour in Gran Bretagna. L’ultimo recentissimo inserimento nella famiglia populista da parte dei media nostrani riguarda Alternative fürDeutschland (AfD) il partito guidato dalla quarantenne FraukePetry, che ha ottenuto un importante successo nelle elezioni regionali tedesche del 13 marzo.
In realtà nella maggior parte dei casi la caratteristica di questi movimenti è di essere portatori di un modo nuovo di fare politica tra la gente, alla quale ci si rivolge in modo diretto, senza tatticismi, bizantinismi e burocratismi, andando al cuore dei problemi senza mediazioni, equilibrismi ed eccessi di politicallycorrect. Un recente sondaggio dell’istituto di ricerca Swg ha rilevato anche in Italia un crescente apprezzamento verso tale declinazione della politica. Il 28% degli intervistati (su un campione di mille soggetti) valuta il populismo come la capacità di «considerare le esigenze del popolo», con una percentuale che sale tra i giovani al 36%. Una medesima tendenza si ritrova confrontando le valutazioni di abbienti e soggetti in difficoltà economica. Tra i primi, il livello d’attrazione dell’offerta populista è al 19%, mentre tra i secondi è al 35%.
L’accezione positiva del termine appare d’altro canto in maggiore sintonia con la sua origine. Alla fine dell’Ottocento, in Russia, il «populismo» indicava l’azione di un partito volto al miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne; sulla sponda opposta, negli Usa del People’s Party, rappresentava la rabbia e la reazione dei piccoli contadini contro il sistema bancario e la finanza. Negli anni Venti, in Germania, il populismo era connesso alla «Rivoluzione Conservatrice» ed entrava in connubio con l’elemento nazionale e popolare; mentre, a metà del Novecento, in America Latina, assumeva i contorni di una politica conservatrice che metteva in diretta connessione un leader carismatico con il popolo.
Ben venga dunque il populismo se per esso si intende una rottura con le vecchie classi politiche e con le prassi corruttive; una risposta ai problemi aperti dall’immigrazione incontrollata e dallo sfruttamento che ne viene fatto; un modus operandi politico chiaro, semplice e netto; una nuova classe dirigente più vicina alla gente e meno coinvolta nei giochi di potere.