L’Italia potrebbe non essere immune dal pericolo tsunami. A sostenerlo è la prima mappa di pericolosità degli tsunami generati da terremoti nell’area Neam – acronimo che indica il Mediterraneo, l’Atlantico nord-orientale e i mari connessi –, realizzata nel progetto europeo Tsumpas-Neam, coordinato dall’Ingv, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Nel presentarla, Roberto Basili, coordinatore del progetto, ha spiegato che «in media più del 30% delle coste mappate con il progetto dell’area Neam, di cui l’Italia è solo una piccola parte e tra le più pericolose, possono subire uno tsunami con onde più alte di un metro ogni 2500 anni». Nel Mediterraneo le tre zone che possono generare i terremoti più forti, e quindi anche gli tsunami più grandi, sono l’arco ellenico – ovvero la zona che si estende da Cefalonia a Rodi –, l’arco di Cipro, che arriva fino al Libano, e l’arco Calabro. Particolarmente a rischio sono le coste della Sicilia Orientale, quelle salentine, la Calabria ionica, la Basilicata e lo stretto di Messina. Nel Mediterraneo occidentale altre zone di pericolosità, seppur minore, sono Sardegna meridionale, Sicilia e Mar Ligure perché ci sono delle faglie attive sulla costa nordafricana. Nel 2017, l’Italia ha lanciato il SiAM, il Sistema d’Allertamento nazionale per i Maremoti di origine sismica, coordinato dal Dipartimento della Protezione Civile nazionale, con Ingv e l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale. L’Ingv effettua la prima parte dell’allerta, determinando i parametri del terremoto e stimando il loro potenziale di provocare uno tsunami, per poi dare i messaggi di allerta alla Protezione civile e ai Paesi dell’area euro-mediterranea.