di Nazzareno Mollicone

Il numero del 29 maggio scorso di “L’economia”, che è l’allegato settimanale del “Corriere della Sera“, reca alle pagine 6 e 7 la recensione di un libro di Veronica De Romanis, professoressa presso la nota “Stanford University” della California. Il libro è intitolato “L’austerità fa crescere: quando il rigore è la soluzione” e reca un’analisi di tutti i Paesi europei, sottoposti al regime di austerità finanziaria imposta negli ultimi anni dalla Commissione Europea per vederne gli effetti sia in termini politici che in termini di spesa pubblica e crescita del p.i.l.
Dal punto di vista politico, che è quello che c’interessa meno, l’analisi della professoressa indica lo scarso effetto che le restrizioni imposte dall’austerità hanno avuto sulle elezioni ed i governi perché negli anni dal 2008 al 2015 solo otto governi, su 28, sono stati rieletti, e solo in due casi (Grecia e Portogallo) il nuovo governo ha attuato un cambio di azione politica economica. Questo però non significa che negli altri diciotto casi il cambio di governo non sia stato causato dalle politiche di austerità, tant’è vero che i nuovi governi hanno cercato di cambiare strategia in qualche aspetto.
Ma l’analisi si fa più concreta quando collega la politica di austerità ai risultati economici. Pur diminuendo la spesa pubblica, in cinque Paesi presi in esame (Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Spagna) il prodotto interno lordo (che è l’indice che segnala lo sviluppo economico) è diminuito od è rimasto statico: gli unici incrementi (si fa per dire…) sono stati quelli dell’Italia, dallo 0,8% del 2015 allo 0,9% del 2016, e della Spagna, dal 3% del 2015 al 3,2% del 2016. Da rilevare tuttavia che tutta l’area dei Paesi che adottano l’Euro, e su cui per disposizione della “Banca Centrale Europea” si sono maggiormente applicate le politiche di austerità, ha fatto registrare dal 2015 al 2016 una diminuzione del già ridotto tasso di crescita del p.i.l.: dall’1,9% all’1,8%. Questo, a nostro parere, è il vero dato che indica il risultato finale delle politiche di austerità!
C’è poi un altro dato da prendere in considerazione, che riguarda proprio l’Italia. L’ex-presidente del consiglio Matteo Renzi, per conquistare consenso elettorale e per apparire diverso dai precedenti governi Monti e Letta che hanno applicato rigidamente una politica di austerità, ha effettuato un aumento della spesa pubblica mediante elargizioni sotto forma di “bonus”, di “decontribuzioni” e di “flessibilità” sul bilancio statale (“utilizzata essenzialmente per finanziare spesa corrente”, è scritto nel libro in questione) per un ammontare di circa 50 miliardi di euro, che però non hanno avuto praticamente nessun effetto in termini occupazionali e di crescita del prodotto interno.
A nostro parere, invece, se quella somma così ingente fosse stata utilizzata per effettuare quei lavori pubblici di cui il nostro Paese sente la mancanza perché le infrastrutture sono ormai od insufficienti od in pessime condizioni, si sarebbe creato del lavoro “vero”, con una occupazione “vera”, con un forte stimolo alle attività produttive mediante l’indotto creato da quegli investimenti: i 50 miliardi impiegati si sarebbero trasformati in almeno il doppio di produzione reale.
Quindi, in conclusione: non è vero che l’austerità “fa crescere”, come afferma quel libro; e non è neanche vero che l’adozione di politiche in parte assistenziali in parte demagogiche possa far ripartire l’economia. L’economia, ed il lavoro, ripartono solo se si investe su opere di lunga durata e di grande rilievo produttivo e sociale, anche se si deve incrementare la spesa pubblica.