di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Ultimamente assistiamo alle difficoltà crescenti dell’ex Premier Conte, meglio noto come l’autodefinito “avvocato del popolo”, protagonista di una discesa in politica a dir poco unica nel suo genere. Catapultato a Palazzo Chigi dalla professione forense e da quella accademica, Primo Ministro “populista” dell’Esecutivo 5 Stelle-Lega, poi di nuovo a capo del Consiglio dei Ministri, stavolta nella veste di leader moderato della coalizione giallorossa durante la prima ondata della pandemia, infine presidente del M5S, a coordinarne la transizione della formazione da movimento di protesta contro sprechi e corruzione oltre le definizioni di destra e sinistra, in un partito sempre più tradizionale nel filone del progressismo. Giuseppe Conte al momento è l’unico leader di partito a collocarsi al di fuori dell’Emiciclo italiano ed anche di quello europeo. Un capo senza poltrona ed a suo dire senza stipendio: «Se mi pagano per fare il leader del Movimento 5 stelle? Da vari mesi non prendo una lira, perché sono in aspettativa dall’università ed ho rinunciato a fare l’avvocato». Queste le sue parole durante l’intervento nella kermesse meloniana Atreju. Eppure Conte ha appena rinunciato alla candidatura alle suppletive del Collegio 1 di Roma, che gli era stata offerta dal Pd. Neutralizzato dalla pressione suscitata da Renzi e dalla contro candidatura di Calenda, che avrebbe potuto intaccare, a quanto pare in modo sostanziale, il bacino di voti in favore dell’avvocato. Che in caso di sconfitta ci avrebbe rimesso non solo lo scranno a Montecitorio, ma anche la faccia. Così si è defilato, dicendo di voler entrare, eventualmente, in Parlamento, dalla «porta principale» ossia alle prossime politiche. Che sembrano, però, ancora molto lontane. Poi le parole in favore di Berlusconi, «ha fatto anche cose buone», sempre ad Atreju, che gli hanno inimicato il maggiore sponsor mediatico, ovvero il Fatto Quotidiano, protagonista di una petizione contro la possibilità di eleggere il Cavaliere al Quirinale, e anche molta parte di un elettorato da sempre ostile al leader di Forza Italia. Poi la questione del due per mille in favore del Partito, altro totem infranto dai Cinque Stelle targati Conte. Con la spada di Damocle di un nuovo movimento, magari guidato da Di Battista, in arrivo, a togliergli ancora altri sostenitori. E all’interno ancora messo in ombra da Grillo e Di Maio. Una figura che sembra sempre più marginale, più confusa, nonostante il ruolo ricoperto, a capo di quello che, comunque, allo stato attuale delle cose, resta il partito maggioritario in Parlamento, principale azionista del governo Draghi. Un ondivago Don Abbondio, per dirla con Manzoni: vaso di coccio tra i vasi di ferro rappresentati dai leader degli altri partiti, piccoli e grandi. Alla conta dei fatti, tutti – nessuno escluso – ben più forti, identitari e strutturati.