di Mario Bozzi Sentieri

A vent’anni dal G8 di Genova, che cosa ne è del movimento no-global? Che fine ha fatto il mitico popolo dei giorni “gloriosi” del luglio 2001? Dov’è finita l’attesa rivoluzione dei proletari del sud del mondo? E del lungo elenco di aspettative, segno della parcellizzazione del movimento (più di mille sigle, che spaziavano dai beati costruttori di pace e dalle suore anglicane ai militarizzati militanti dei centri sociali di mezza Europa)? Rispetto al 2001, anno in cui il movimento no-global espresse una grande capacità di mobilitazione, ottenendo il massimo della visibilità mass-mediatica, poco o niente pare resistere di quella stagione se non le melanconiche e ripetitive ricostruzioni, fatte di buoni sentimenti (verso gli amici) e di tanto rancore (verso i nemici di ieri e di oggi). Ecco allora – testi alla mano – il fuoco delle molotov, le vetrine in fiamme, le automobili usate come barricate, le manganellate (da una parte e dall’altra), le tute bianche ed i black bloc. Ed ecco l’immagine, dolorosa e drammatica, del giovane assalitore steso sul selciato, ucciso da un altro giovane, in divisa, al quale – dopo il procedimento giudiziario – è stata riconosciuta la legittima difesa, ma che per gran parte della vulgata corrente (di sinistra) rimane un assassino. Ed ancora gli immancabili richiami al potere cinicamente scagliato contro il “Pueblo Unido”. Tanti “come eravamo”. Oltre però non si va. D’altro canto di eredi di quella stagione non se ne vedono, né di ideologi in grado di leggere gli attuali contesti mondiali, segnati da un ventennio di fuoco, ben diversi dai drammatici giorni del luglio del 2001. A ridosso del G8 di Genova – non dimentichiamolo – ci sono stati gli attentati del settembre 2001, con il crollo delle Torri Gemelle, nel cuore del World Trade Center a New York, con tutto quello che ne è seguito. “L’integralismo islamico è cresciuto sul cadavere in decomposizione del movimento progressista” – ha scritto Gilbert Achcar, saggista e attivista della “Sinistra critica”. Nel 2008 è fallita la banca Lehman Brothers e il mondo è stato testimone impotente di una delle peggiori crisi finanziarie della storia globale, ma senza che questo attivasse particolari reazioni popolari o “di classe”. “Occupy Wall Street” è durato lo spazio di un mattino. Le aspettative di Barack Obama non sono andate al di là di qualche buon proposito. E nel gennaio 2017 infatti è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti il “populista” Donald Trump. Negli ultimi vent’anni i conti abbiamo dovuti farli rispetto al travolgente industrialismo e globalismo cinese, coniugato con una spregiudicata strategia geo-politica. Poi è arrivata l’emergenza immigrazione, che ha diviso le opinioni pubbliche, anche di sinistra. Pare vincere la mediazione istituzionale. Sostenibilità fa rima con “salto tecnologico”, mentre l’ecologismo diventa strumento della globalizzazione. A “dettare la linea” è l’agenda 2030 dell’Onu. Nel frattempo il debito estero continua a gravare sui bilanci delle nazioni più povere; il numero di persone che vivono con meno di 5,50 dollari al giorno è rimasto praticamente invariato tra il 1990 e il 2015 passando da 3,5 a 3,4 miliardi; durante l’emergenza Covid, a livello globale, sono stati investiti in politiche di protezione sociale 2.900 miliardi di dollari, ma solo 379 miliardi di dollari sono stati spesi dai Paesi in via di sviluppo. In questo quadro, i nuovi movimenti sono l’espressione della frantumazione ideologica del radicalismo di sinistra, oggi omologatosi all’interno di campagne di basso profilo e di scarso coinvolgimento popolare: Black Lives Matter, No Borders No Nations, No Tav, il movimento iconoclasta. A vent’anni dai “fatti di Genova” i vecchi no-global sembrano come rattrappiti, piegati su se stessi, rendendo palese la loro incapacità strutturale, diremmo mentale, di affrontare – da sinistra – i problemi determinati dalla nuova globalizzazione, a partire dalle proprie radici culturali. Chi abbia letto il Marx autentico, non può – del resto – non ricordare le sue pagine dedicate ad esaltare il benefico “sradicamento” socio-economico realizzato dal capitalismo nei confronti delle società tradizionali, la sua esaltazione dell’industrialismo, il suo disprezzo verso il “sottoproletariato”, oggi diremmo i reietti del mondo (“putrefazione passiva – scrive Marx – degli strati più bassi della vecchia società”). Resta la demagogia, in grado – come avvenne vent’anni fa – di riempire le piazze, di rassicurare le “buone coscienze” dell’Occidente e di illudere certa sinistra, vecchia e nuova, nel sentirsi ancora rivoluzionaria. In realtà con scarsi risultati e senza prospettive. Se non quelle di evocare “nostalgicamente” i suoi storici fallimenti, giustificandoli con l’ “eclissi della democrazia”, la stessa democrazia della quale però è stata ed è parte in causa.