di Claudia Tarantino

Proprio nel giorno in cui migliaia di allevatori, agricoltori, ambientalisti sono arrivati a Roma da tutta Italia per manifestare in piazza Montecitorio contro il trattato di libero scambio con il Canada (Ceta) che, tra le altre cose, legittima imitazioni di tante eccellenze agroalimentari italiane, spalancando le porte all’invasione di grano duro e di carne a dazio zero, vengono diffusi i dati di Aidepi (Associazione dell’industria del dolce e della pasta) che confermano la supremazia del nostro Paese come primo produttore mondiale di pasta.

Una ‘strana’ coincidenza che induce a riflettere sulle conseguenze che l’accordo pensato per fluidificare gli scambi tra i due lati dell’Atlantico avrebbe non solo sui prodotti Made in Italy, come appunto la pasta e i prodotti da forno, ma anche sull’agricoltura della nostra penisola che verrebbe esposta ai rischi di una concorrenza sleale dal punto di vista economico e pericolosa sotto l’aspetto della sicurezza alimentare.

Ma andiamo con ordine. Dicevamo che, secondo i dati raccolti da Aidepi, una delle industrie simbolo del Bel Paese, quella della produzione di pasta, conquista nuovamente il podio raggiungendo la quota di 3,32 milioni di tonnellate di prodotti ‘trafilati’ dai pastifici italiani nel 2016, nonostante il calo del fatturato, sceso a 4,74 miliardi di euro (-1,1%), dovuto principalmente alla diminuzione del loro valore (arrivato a 2,17 miliardi, pari al 46% dei ricavi totali) e dei consumi interni (1,42 milioni di tonnellate).

Un dato significativo, che vale la pena analizzare in relazione alla discussione sulla ratifica del Ceta, riguarda le esportazioni di pasta, che nel 2016 risultano in crescita con 1,98 milioni di tonnellate (+3,4%), a fronte degli 1,83 milioni del 2015 e agli 1,93 milioni del 2014.

Se a questo, poi, aggiungiamo il fatto che il Canada è il nostro principale competitor nel mercato del grano duro, di cui è il primo paese produttore ed esportatore mondiale, ci si può rendere facilmente conto del danno che può provocare questo trattato sul nostro mercato in generale e su alcuni settori particolarmente fiorenti della nostra economia, come appunto quello della produzione di grano duro e di pasta. Senza contare che può rappresentare un pericoloso precedente nei negoziati con altri Paesi, anche emergenti, che potrebbero sentirsi autorizzati a chiedere le stesse condizioni, a danno di altri settori della nostra economia, già duramente ‘fiaccata’ da anni di crisi.

Tra le motivazioni avanzate da Coldiretti e da numerose altre associazioni per bloccare una ratifica che porterebbe ad un’indiscriminata liberalizzazione e deregolamentazione degli scambi, con una vera e propria svendita del Made in Italy, c’è anche quella della sicurezza alimentare.

In Canada si producono, grosso modo, due tipi di grano duro, uno dei quali è ricco di contaminanti. L’accordo Ceta spalancherà le porte all’invasione di grano duro trattato in preraccolta con il glifosato, un diserbante che è vietato in Italia, e con chissà quali altri prodotti chimici attualmente proibiti dal nostro Paese.

Secondo un Dossier della Coldiretti, ben 250 denominazioni di origine (Dop/Igp) italiane riconosciute dall’Unione Europea non godranno di alcuna tutela sul territorio canadese. Peraltro, il trattato dà il via libera all’uso di libere traduzioni dei nomi dei prodotti tricolore, (pensiamo al ‘Parmesan’ che potrà essere liberamente prodotto e commercializzato dal Canada a danno del formaggio italiano più esportato nel mondo, il Parmigiano Reggiano), mentre per alcuni prodotti (asiago, fontina e gorgonzola) è addirittura consentito in Canada l’uso degli stessi termini accompagnato con ‘genere’, ‘tipo’, ‘stile’, e da una indicazione visibile e leggibile dell’origine del prodotto. Ma, se sono stati immessi sul mercato prima del 18 ottobre 2013 possono essere perfino commercializzati senza alcuna indicazione.

Riepilogando, dunque, concorrenza sleale che danneggia i produttori e inganna i consumatori; liberalizzazione indiscriminata e deregolamentazione degli scambi con una vera e propria svendita del Made in Italy; rischio di avere un ‘effetto valanga’ sui mercati internazionali; sicurezza alimentare messa a repentaglio dall’uso di prodotti chimici vietati in Italia.

Ma allora chi ci guadagna con il Ceta? Le multinazionali, ovviamente.