di Barbara Faccenda

Nel rispetto del dolore della famiglia, per la perdita di Giulio Regeni, nella speranza che presto si possa arrivare alla verità, ci sembra opportuno riflettere su cosa è diventato l’Egitto. Lo facciamo in particolare su due punti: la repressione di ogni forma di dissenso ed il ruolo dei sindacati.
Il parallelo storico con l’era di Gamal Abdel Nasser.
Facilmente e senza nessun merito si descrive l’odierno sistema politico egiziano come una restaurazione dell’era autocrate di Mubarak. Ma ciò non è abbastanza. La repressione è adesso molto più estesa. Un parallelo storico che potrebbe calzare è quello con l’era di Gamal Abdel Nasser, presidente egiziano dal 1956 fino alla morte nel 1970. Secondo il “sistema Nasser” era consentito solo un partito politico, i Fratelli Mussulmani erano duramente repressi, il dissenso politico e ogni inclinazione ideologica era fortemente monitorata. I giornali erano nazionalizzati e controllati, gli ufficiali di sicurezza e militari sparsi in tutte le posizioni chiave dello stato. Il periodo Nasser incoraggiava l’attività politica, ma solo nella misura in cui che era sostenuta dal regime. L’odierno sistema politico egiziano è basato su un simile livello di repressione nelle mani dei militari al potere. Resta vero il fatto che Sisi non sta presiedendo ad una semplice ri – creazione del “nasserismo”. Nella visione dei militari, che dopo il coup, governano de facto il paese, l’Egitto non deve incontrare lo stesso destino della Siria e della Libia e la politica deve attendere.
Le iniziative economiche ed i decreti di Sisi tradiscono la sua limitata capacità di comprensione della natura e delle cause dei problemi strutturali che affronta l’Egitto: povertà, disoccupazione, produttività bassa. In maniera più ampia l’approccio di Sisi è risultato essere un misto di decreti legislativi ed amministrativi caratterizzato dall’inconsistenza e da contraddizioni intrinseche. L’enfasi sui megaprogetti appare riflettere una credenza semplicistica che la loro grande scala in qualche modo allevierà la disoccupazione che è significativa. I prestiti, i crediti ricevuti dal 2014, di svariati di miliardi di dollari, negoziati direttamente da Sisi, l’assistenza finanziaria dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Kuwait dal luglio 2013 ai primi 2015 è stata massiccia, ma solo sufficiente a tenere l’economia e lo stato a galla. La dura verità è che la guida inesorabile di Sisi per generare nuovi investimenti effettivamente cerca facili guadagni, ignorando il bisogno di affrontare in maniera fondamentale i problemi strutturali dell’Egitto.
La repressione del dissenso ed il ruolo dei militari
C’è un modo molto diverso di raccontare la storia del 2011. Questa storia non è di grandi ma disilluse speranze, ma quella di una minaccia di caos e salvezza. Dalla prospettiva delle istituzioni di sicurezza egiziane – la sua forza di polizia e di intelligence – la rivoluzione ha minacciato non solo di far cadere il presidente dell’Egitto, ma il suo intero ordine sociale e politico. Evitare questo è stato un compito arduo, uno di quelli che le forze militari egiziane sentono ancora nel vivo compimento. I militari egiziani si sono visti, tradizionalmente come i guardiani della nazione: in altre parole credevano che avevano sia il diritto che il dovere di sbarazzarsi di figure governative che erano diventate illegittime. Il Supreme Council of the Armed Forces, si è sentito il protettore del cuore degli interessi nazionali, incluso rimuovere le ondate di scioperi dei lavoratori che avevano raggiunto le infrastrutture guidate dai militari, restaurare l’ordine e la legge.
Il fallimento di schiacciare la politica egiziana nel box militare, in aggiunta all’irritante, goffo tocco politico dei Fratelli Mussulmani, hanno lasciato, agli occhi dei militari nessuna scelta se non quella di assumere il compito che avevano desiderato a lungo: comandare e governare allo stesso tempo. Nel luglio del 2013, quando Sisi dichiara che Morsi non è più il presidente, le prospettive dell’Egitto sembrarono affievolirsi: l’economia sull’orlo del disastro, società profondamente polarizzata, la penisola del Sinai che era teatro di attacchi terroristici. Per i militari, l’unica opzione che sembrava potesse salvare il paese dal collasso catastrofico era imporre l’ordine, a qualsiasi costo.
Il 25 gennaio 2015, il giorno in cui scomparve Giulio Regeni, era il giorno del quinto anniversario della rivoluzione che portò alla caduta del presidente Hosni Mubarak. La polizia egiziana conduce centinaia di incursioni in appartamenti al Cairo, arresta diversi “sospetti” e poi li accusa di “incitamento alle proteste”. Gruppi di destra e di attivisti di opposizione accusano le forze di sicurezza di detenere centinaia di attivisti senza riportare i loro arresti, citando almeno 340 casi di sparizioni forzate in periodo di 4 mesi: dall’agosto al novembre 2015. Un gruppo egiziano chiamato El Nadeem Centre for Rehabilitation of Victime of Violence, (http://alnadeem.org/en/node/23) recentemente ha pubblicato un rapporto che coincide con l’anniversario della rivoluzione del 2011. Secondo il movimento, almeno 41,000 persone sono state detenute, accusate o condannate fin dal luglio 2013.
Il ruolo dei sindacati
Il movimento dei lavoratori ha giocato un ruolo centrale nella costruzione della rivoluzione del 2011, e nelle successive proteste. La situazione di sicurezza non ha lavorato in favore dei sindacati. Le leggi anti – protesta introdotte nel 2013 erano un serio ostacolo ai movimenti dei lavoratori, così come l’arresto di molti leader per aver tentato di ottenere permessi per tenere manifestazioni dei lavoratori. Il Center for Trade Union and Workers Services (CTUWS), che nel 2008 cercava di registrarsi legalmente come una ONG riconosciuta in Egitto, è una organizzazione sindacale indipendente che sostenne la campagna Tamarrud durante le dimostrazioni del 30 giugno 2013 per il voto popolare di sfiducia a Morsi. Attraverso i suoi sei uffici regionali radunò 200,000 firme. Storicamente ha sempre messo come priorità il movimento dei lavoratori sulla partecipazione alla politica nazionale, in parte, per questa ragione, i sindacati allineati con il CTUWS si sono ritirati dal Egyptian Trade Union Federation (EFTU) l’organizzazione affiliata dello stato che ha il monopolio legale sulla rappresentanza dei lavoratori.
Dall’imposizione del autoritarismo militare dal luglio 2013, lo stato si sta riappropriando della sfera pubblica in combinazione con una crescente repressione dei dissidenti; fuori legge sono le proteste, gli scioperi, i sit – in spazi pubblici, università, società civile e media privati sono soggetti ad uno stretto controllo legale e di sicurezza. Non ultima l’adozione di restrizioni nei confronti dei sindacati indipendenti, de – legittimizzandoli in favore del ETUF. Molti sindacalisti indipendenti sono stati arrestati e licenziati dal loro lavoro arbitrariamente. ETUF fu stabilito nel 1950 come un modo per lo stato di controllare i lavoratori mentre rivendica di rappresentare i loro interessi. E qui ritorna il parallelo storico con Nasser perché durante il suo governo la relazione tra lo stato e la classe lavoratrice era basata su uno baratto tra le libertà e i diritti politici su una mano e i privilegi economici dall’altra.
Lo stato egiziano ha perseguito costantemente la stessa strategia nei confronti del movimento dei lavoratori per più di una decade. Questa strategia può essere riassunta in: non offrire nessuna concessione nelle leggi e negli accordi istituzionali legati al movimento dei lavoratori, sia riguardo al permettere il pluralismo nei sindacati, sia per la libertà di associazione, legalizzare il diritto allo sciopero, o accordarsi per il salario minimo. L’obiettivo era quello di preservare il quadro istituzionale dell’organizzazione sindacale dominata dallo stato e il corporativismo autoritario dello stato, in cui una singola organizzazione gerarchica strettamente controllata dallo stato monopolizza la rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Si continuava a mantenere e preservare l’ETUF, ma si adottano misure più stringenti in relazione al divieto di sciopero e alle proteste. La legge sul pubblico impiego n.18, passa nel 2015 e restringe il diritto dei lavoratori ad organizzarsi in generale e non garantisce la nomina di rappresentanti degli impiegati pubblici al National Civil Service Council. La legge passa senza nessun contributo di sindacati, sia controllati dallo stato che indipendenti.
Forse ci si potrebbe chiedere che cosa accadrà all’Egitto se i lavoratori non saranno più in grado di giocare lo stesso ruolo di prima. Sin dal giugno 2013 il governo egiziano ha perseguito una politica economia di liberalizzazione dei mercati e di incoraggiamento degli investitori. Tuttavia, né il regime, né i lavoratori stanno giocando un ruolo nel raggiungimento di uno sviluppo economico reale che crei lavoro e riduca la povertà. In più, non c’è un chiaro percorso per raggiungere la stabilità in questa maniera, perché le cause che scatenarono la rivoluzione del 2011 rimangono in essere se non più fortificate. E nel processo di tracciare un cambiamento economico, lo stato ha scelto di eliminare ogni garanzia statale vinta dai lavoratori nel corso degli anni, alterando le leggi che organizzano le relazioni di lavoro in tutti i settori e permettendo ai datori di lavoro di assumere liberamente senza aderire alle garanzie obbligatoriedi lunga data dei diritti dei lavoratori.