C.M.

Il nepotismo negli atenei italiani esiste ancora, anche se è in calo.
Ecco quanto emerso da uno studio effettuato da Stefano Allesina e Jacopo Grilli, ricercatori dell’Università di Chicago, e pubblicato su “Pnas”, secondo cui il fenomeno è meno diffuso rispetto al passato, “anche per effetto della riforma del 2010”, e si concentra particolarmente “in alcune discipline, come Medicina e Chimica, e in alcune regioni, come Sicilia, Puglia e Campania, con pochi dipartimenti che vi contribuiscono in maniera significativa”.
I due studiosi hanno analizzato le differenze esistenti tra i sistemi universitari italiano, francese e statunitense, esaminando liste di nomi reperite su siti web pubblici.
“Questo studio sfrutta tecniche elementari – ha sottolineato Allesina, professore nel dipartimento di Ecology & Evolution -. Volevamo analizzare il più semplice tipo di dati possibile: una lista di nomi di professori. Che tipo di informazioni possiamo ricavare da dati così semplici? Può una lista di nomi aiutarci a individuare problemi in un sistema accademico?”.
Nello specifico, è stato esaminato il numero di ricercatori con lo stesso cognome in ogni dipartimento, e sono stati vagliati i casi in cui tale circostanza non potesse essere legata alla diffusione geografica del cognome stesso o a un’immigrazione specifica, ma soltanto alla parentela.
Per Allesina, il nepotismo “segnala un problema più generale nel reclutamento: se un professore può mettere in cattedra il figlio, allora potrà mettere in cattedra chiunque. Lo studio del nepotismo è come il proverbiale canarino nella miniera: risolvere il problema del reclutamento proibendo l’assunzione di parenti è come risolvere il problema delle fughe di gas nella miniera uccidendo il canarino”.
Il ricercatore aveva già effettuato una ricerca nel 2011, che aveva causato “un certo scalpore in Italia, anche perché la pubblicazione era avvenuta immediatamente dopo la riforma Gelmini”, il cui spirito era “contrastare le assunzioni di parenti all’interno delle università. La percezione diffusa nell’opinione pubblica – continua il ricercatore – era che promozioni e assunzioni fossero assicurate da contatti personali, piuttosto che dal merito, allontanando studenti meritevoli dalla carriera accademica”.
Parlando con Adnkronos Salute, Jacopo Grilli, Postdoctoral Scholar nel dipartimento di Ecology & Evolution dell’Università di Chicago, ha inoltre spiegato che il sistema universitario italiano “è caratterizzato da poca mobilità e poca immigrazione, mentre in Francia e Stati Uniti ci si muove molto di più. Questo è rilevante, perché suggerisce che in Italia ci sia poca competizione tra gli atenei per prendersi i ricercatori migliori”. Secondo lo studioso, dal lavoro emerge anche che “i ricercatori italiani tendono a lavorare dove sono nati e cresciuti: i cognomi che si trovano nei dipartimenti sono tipici delle rispettive città e regioni. Al contrario, i ricercatori statunitensi e francesi sono distribuiti su tutto il territorio nazionale senza particolari
concentrazioni geografiche. Questo – aggiunge – segnala che in Italia la concorrenza tra gli atenei per assumere i ricercatori migliori è scarsa. Prendiamo i giocatori di calcio della serie A, che sono ben pagati e per i quali le squadre competono ferocemente: troviamo tanti stranieri, e anche tra gli italiani i casi in cui un giocatore resta nella squadra della città in cui è nato sono rari. Se guardiamo alla serie B, i casi aumentano. Se poi ci spostiamo verso i dilettanti, allora la gran parte dei giocatori milita in una squadra vicino al proprio paese di origine. Se gli atenei cercassero di offrire migliori condizioni salariali e di ricerca per assumere i ricercatori migliori – afferma – ci aspetteremmo più mobilità”.