di Giovanni Magliaro

Dietro le belle parole che negli anni ottanta hanno indorato il progetto di mondializzazione dell’economia, accompagnato da interessati imbonitori con grande enfasi e grande dispiegamento di mezzi di informazione, si sono svelate nel tempo realtà ben diverse anche perché le conseguenze concrete sono palesi.

La ristrutturazione del processo produttivo portata avanti dalle grandi multinazionali dei Paesi sviluppati ha avuto come obiettivo principale quello di andare a produrre senza limitazioni beni in quei Paesi dove il costo del lavoro è minimo e dove sono inesistenti i diritti di cui dovrebbero godere i lavoratori. Il risultato è stato quello di porre in concorrenza a livello internazionale circa mezzo miliardo di lavoratori dei Paesi occidentali con retribuzioni dignitose e diritti acquisiti in decenni di lotte con oltre un miliardo e mezzo di lavoratori con retribuzioni irrisorie e diritti pressochè inesistenti. Le condizioni di vita e di lavoro conquistate da quello che fu il proletariato europeo e americano sono sfidate dal proletariato globale che da esse è lontanissimo.

L’esempio della Cina è illuminante. Le condizioni di lavoro esistenti in questo enorme Paese sono note : salari inferiori a un dollaro l’ora; rifiuto delle imprese di riconoscere diritti fondamentali e standard minimi; orari di sessanta ora settimanali e oltre; estrema flessibilità della prestazione; assenza di sindacati e divieto di costituirli; divieto di sciopero; assenza di protezioni per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro; e così via. Condizioni che toccano i livelli più bassi nelle cosiddette ZES (Zone economiche speciali) dove alle imprese straniere sono offerte dal governo cinese anche facilitazioni eccezionali sui prezzi dei terreni, imposte e altro. Questo consente alle corporations transnazionali, che utilizzano milioni di dipendenti diretti e altre decine di milioni di operai occupati da fornitori e subfornitori, di produrre merci a prezzi minimi da esportare in tutto il mondo. Questo fiume di export esercita una enorme pressione sui salari, sulle condizioni di lavoro e sul livello di vita di ogni Paese del mondo. Per i capitalisti si tratta del paradiso che hanno sempre sognato : pagare bassissimi salari, assumere e licenziare senza limitazioni, prolungare arbitrariamente per anni i periodi di prova, imporre decine di ore settimanali di straordinario, non pagare indennità di licenziamento.

Oltre alla Cina la forza di lavoro globale su cui può contare il capitalismo internazionale risiede in Messico, Indonesia, Filippine, Malesia, Tailandia, Vietnam e altri Paesi.

La vera sfida che pone la globalizzazione è questa: a lungo periodo inevitabilmente ci sarà un pareggiamento tra i redditi e i diritti delle forze lavoro comparativamente più agiate come quelle occidentali e quelle più povere del mondo. Questo pareggiamento avverrà verso l’alto della scala o piuttosto verso il basso?

E’ facile capire che questa sfida dovrebbe essere il problema centrale e prioritario della politica mondiale e delle rispettive politiche nazionali. L’obiettivo predominante – se si vuole veramente e non solo a parole perseguire il benessere delle nazioni e dei popoli e non quello di pochi speculatori – dovrebbe essere quello di far salire le retribuzioni e i diritti del miliardo e mezzo di lavoratori globali poveri verso l’alto della scala fino al raggiungimento di un sostanziale pareggio con il resto dei lavoratori dei Paesi più sviluppati. Allo stato attuale non sembra che sussistano le condizioni perché questo avvenga visto il predominio del pensiero unico neoliberista e lo strapotere del capitalismo finanziario. E viste le posizioni di asservimento a questi poteri della politica italiana ed europea.

E’ tuttavia fondamentale lottare sempre e in tutte le sedi possibili per affermare la verità sulla globalizzazione e per capire sempre meglio da che parte sta il nemico da battere.

Segnalo il libro di Luciano Gallino, “Il lavoro non è una merce”, da cui ho tratto molti spunti e molti dati.