La prima cosa che mi viene in mente nel ricordare mio padre è una sua frase molto ricorrente: “sono un sindacalista figlio dell’emigrazione Sud-Nord”.

Aveva lasciato la sua terra, la Calabria, ai primi degli anni 50 per trasferirsi a Torino, agli inizi da solo, poi con tutta la famiglia non appena trovò il ‘posto sicuro’: una frase che 50 anni fa era usata ma certamente non più utilizzata nell’accezione odierna.

Entrando in Fiat si trovò subito a dover affrontare i mille problemi che lui e tanti altri come lui dovevano affrontare per superare i cambiamenti. Nel 1968 all’età di 18 anni mi ritrovai al suo fianco nell’interno della Fiat Lingotto a vivere la pratica sindacale quotidiana. Erano anni quelli in cui il mondo del lavoro viveva l’epoca delle innovazioni, della trasformazione sociale, delle lotte sindacali, spesso e volentieri esasperate dalla contrattazione in cui la libertà e l’autonomia sindacale erano subordinate agli ordini dei partiti di sinistra, in primis dal PCI e dai movimenti extraparlamentari come Lotta Continua.

CISNAL vecchia tesseraIn quegli anni difficili, lui che si trovava ai vertici della Cisnal provinciale, a stretto contatto di Giovanni Petrucci e di Edoardo Malusardi sindacalisti dall’altri tempi, dimostrò di essere un uomo capace di guidare gli altri, di essere “capo” in tutti i sensi.Ricordo che in una delle prime riunioni, a cui partecipai assieme a Andrea Dorè , Andrea Falchi, Serafino Oldano e altri, si soffermò a lungo per ribadire “che un sindacalista Cisnal si deve riconoscere da lontano, si deve distinguerein tutte le situazioni“. Fare sindacato per lui significava doversi esporre in prima persona per difendere gli interessi del singolo dipendente, per chiedere giustizia nei confronti di quei dipendenti che avevano gravi situazioni familiari e che chiedevano che il datore di lavoro andasse aloro incontro magari anche solo con un piccolo spostamento o cambio di orario o altro.
Il vero lavoro lo faceva con la “democrazia da caffè”: incontri casuali alla macchinetta delle bibite dislocate ad ogni traversa dei 5 piani del Lingotto. La gente lo fermava e ne approfittava per chiedere informazioni di prima mano, anche se non era “della sua parrocchia”.  Allora lui giù a spiegare le cose cercando di calarle nell’esperienza pratica del suo interlocutore, ma soprattutto ascoltava i loro commenti.
Una volta mi confidò che il migliore complimento che aveva ricevuto per la sua attività sindacale era stato quello di un operaio delle presse che gli disse: “Tu non puoi fare il sindacalista: dici le cose come stanno, invece che scagliarti contro l’azienda e promettere chissà cosa“. Ecco, questo era per lui il vero ruolo del sindacato: politica come servizio, evitando promesse che sapeva che non si potevano mantenere, e dedicarsi alle cose pratiche.

In una riunione di quadri sindacali affermò che “il sindacato non poteva permettersi di “restare dietro” e lasciarsi trainare dalla politica: c’era bisogno di dare una risposta ad una società nuova, fatta non più di una classe di lavoratori, ma di una classe di lavoratori/individui.”Io, che svolgevo attività politica nell’interno del Fronte della Gioventù, mi sentii colpito e replicai nel tentativo di difendere il ruolo che la politica aveva all’interno del mondo del lavoro. Per parecchi giorni lo scontro avuto provocò tutta una serie di ragionamenti che si conclusero quando mi disse:

Caro mio, giustizia sociale e solidarietà non hanno confini, né sono di destra, sinistra o centro. Sono una risorsa del Sindacato, di tutto il mondo del lavoro anche se diviso fra settori produttivi diversi. Quando la politica arriverà a capire queste cose non ci sarà maggioranza o opposizione. Tutti saranno sulla stessa barca impegnati a far crescere la vivibilità su questo pianeta“.
Ricordo le lunghe notti passate all’Unione Industriale di Torino o al Ministero del Lavoro di Roma in attesa che si concludessero le trattative per i rinnovi contrattuali. Occorreva aspettare ore perché le riunioni fiume si svolgevano a tavoli separati, la triplice prima la Cisnal dopo. Attese snervanti che si superavano con la consapevolezza dell’importanza strategica di certi momenti.
Insomma la Cisnal, anche se ai margini, era una novità nella storia del movimento sindacale italiano.
Lui che era sempre con la gente e tra la gente non conosceva la parola “isolamento”. Non sospettava di conoscere la violenza fisica che mai ha perseguito nella sue lotte sindacali. Invece gli è accaduto, trovandosi per 10 minuti in balia di gente che entrava nella scena politica con la violenza e l’incitamento all’odio.

L’11 Gennaio del 1973 arrivò puntuale al posto di lavoro insieme a me, ma dopo una telefonata si recò subito presso l’ufficio provinciale della Cisnal in Via Mercantini 6. Al secondo piano vi era la sede dei metalmeccanici e stava preparava alcuni documenti per recarsi all’ispettorato del lavoro per una vertenza. Erano passate da poco le 9 del mattino quando un commando di sei brigatisti armati e con il volto coperto da passamontagna fanno irruzione nei locali. Due degli assalitori restano di guardia alla porta, gli altri quattro mettono all’aria gli uffici rovesciando le scrivanie, le macchine da scrivere e strappando i fili del telefono. Poi si accaniscono contro mio padre e contro Lidia Papandrea una giovane operaia/studentessa universitaria di 22 anni. Mio padre è colpito più volte al volto con il calcio della pistola, mentre la Papandrea veniva percossa a schiaffi e pugni. Con il volto sanguinante (32 punti di sutura alla bocca e quaranta alla testa) reagisce scagliando un posacenere contro gli aggressori che vista la reazione preferiscono la fuga, esplodendo un colpo di pistola che si conficca nel soffitto.

Era la prima volta che un commando delle BR passava da un atto di teppismo a una forma più plateale. Altri episodi contro sindacalisti, fra cui la distruzione di sette vetture utilitarie di lavoratori e rappresentanti sindacali aziendali della Cisnal, e capi della Fiat si erano verificati nei mesi precedenti ma erano molte volte ignorati o confinati in poche righe sui giornali.

Verso mezzogiorno notai un certa situazione di disagio nell’interno dello stabilimento. Capii che era successo qualcosa solo quando una guardia mi si avvicinò per dirmi di recarmi negli uffici direzionali perché il capo del personale voleva urgentemente parlarmi. Mi informò di quanto accaduto e mise a mia disposizione un’autovettura con autista per farmi accompagnare al pronto soccorso dell’ospedale Mauriziano dove era stato portato mio padre. Fuori della porta d’ingresso c’erano sindacalisti della triplice che si strinsero attorno a me per condannare l’episodio. Intanto era uscita “Stampa Sera” con la notizia in prima pagina. Arrivato all’ospedale non trovai mio padre che dopo le medicazioni e i punti di sutura volle fortemente essere portato a casa.

Un mese dopo, il 12 febbraio, le BR sequestrano Bruno Labate, segretario provinciale dei metalmeccanici Cisnal che venne rilasciato dopo alcune ore legato a un palo della luce, con la testa rasata e il volto sanguinante con al collo un cartello con la scritta “Brigate Rosse” e una stella a cinque punte: un simbolo destinato a diventare tristemente famoso negli anni successivi quando esse passeranno alla pratica combattente.

Ma mio padre non conoscerà quei momenti: la sua storia si ferma al 24 giugno del 1975 quando un incidente in auto decretò la sua fine terrena. La sua straordinaria capacità di coinvolgimento e di fare proprie la battaglie sindacali hanno aiutato me e tanti amici nel lungo percorso dell’impegno sindacale e politico.