di Barbara Faccenda

Trump è il primo presidente apertamente islamofobico nell’ultimo secolo; è difficile dimenticare quando disse: “I think Islam hatesus” (io penso che l’Islam ci odi), e sentirlo, sebbene con un discorso preparato, parlare dell’Islam di fronte ai padroni di casa musulmani è stato a dir pocobizzarro.

Tuttavia i leader arabi sono contenti del desiderio di Trump, rispetto al predecessore Obama, di apporre pressione sull’Iran e che voglia utilizzare la forza militare contro lo “Stato islamico” e il regime siriano.

Sono gli autocrati della regione che accolgono con entusiasmo l’assoluta mancanza di interesse da parte dell’amministrazione Trump per le loro politiche domestiche repressive.

La dissonanza cognitiva va ben oltre le vedute personali di Trump.

L’Arabia Saudita, come custode delle due moschee sacre, ha un senso come luogo per un discorso sull’Islam, tuttaviacome una delle sole teocrazie al mondo, l’Arabia Saudita è, in un certo senso, una scelta bizzarra per un discorso inteso a promuovere la tolleranza e la moderazione. Il regno, tuttavia, è spesso definito dai politici americani come un campo “moderato”, semplicemente perché è un alleato e sostiene gli interessi di sicurezza nazionale americani. L’obiettivo, quindi, non è la tolleranza, quanto individuare vie per utilizzare e strumentalizzare l’Islam e i musulmani nella lotta al terrorismo internazionale. Forse il problema più evidente è proprio il presupposto del discorso, l’assunzione che la teologia stringa le chiavi per combattere l’estremismo. La religione importa, certamente, ma gli Stati Uniti, quando vogliono inserirsi in dibattiti interni sull’Islam e sul suo ruolo nella politica, camminano sulle sabbie mobili.

Più importante, però il focus sulla religione contiene il rischio di distrarre gli Stati Uniti dai fattori politici che potrebbero più facilmente modellare o influenzare. Non è un fatto ignoto che i due paesi dove lo “Stato islamico” ha ottenuto più terreno sono quelli maggiormente dissestati dalla guerra civile. Il collasso dello stato dell’Iraq e della Siria ha lasciato un vuoto che gruppi come lo “Stato islamico” hanno facilmente sfruttato. Trump si è ben visto dal discutere del ruolo delle guerre civili nella facilitazione del terrorismo, perché avrebbe richiesto che si affrontasse il ruolo degli Stati Uniti nella promozione dello state-building, qualcosa per cui, almeno finora, Trump ha mostrato poco interesse.

Il peggioramento dell’ostilità tra Iran e Arabia Saudita

Vale la pena ricordare brevemente che la rivalità tra l’Iran e l’Arabia Saudita risiede nell’antica divisione tra l’Islam sunnita e quello sciita. I due rami dell’Islam si sono divisi, subito dopo la morte di Maometto, sulla questione di chi sarebbe dovuto succedere al profeta dell’Islam come capo dei musulmani. I sunniti credono che il leader debba essere ogni membro maschio della tribù Quraysh (tribù di Maometto), scelto dalle autorità della comunità musulmana.Gli sciiti sono convinti che il leader debba essere un diretto discendente maschio di Maometto. Shi’at ‘Ali vuol dire “seguaci di Ali”, genero e cugino di Maometto.

Nelle generazioni questa separazione ha dato vita a differenze dottrinali e, nel tempo, ha aperto un conflitto settario che in molte occasioni è diventato una vera e propria guerra. Tali tensioni settarie si sono mescolate profondamente alle politiche locali e regionali.

Dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, l’Iran ha iniziato ad armare, addestrare ed equipaggiare i gruppi sciiti estremisti sia per appoggiare il nuovo governo a guida sciita dell’Iraq, sia per avere come obiettivo gli Stati Uniti e le forze di coalizione impiegate nel paese. Per contrapporsi a ciò, l’Arabia Saudita ed altri stati sunniti nella regione, almeno tacitamente, hanno iniziato a sostenere i gruppi estremisti sunniti in Iraq, compreso Al Qaeda in Iraq (AQI). A questo mix letale si aggiunge l’ineffettività del governo iracheno e la guerra civile in Siria che hanno, se possibile, aggravato le tensioni religiose ed etniche nella regione.

Il governo saudita ha deciso che non imparerà la lezione dai suoi vicini: Iraq, Siria e Yemen, non aspetterà che la guerra venga a casa, ma sarà pronta ad esportarla nella regione nella folle gara di estendere la sua egemonia politica e prolungare la sua dominanza petrolifera. Il re Salman ha spostato il regno ancora più vicino alla classe dirigente wahhabita. Ricordiamo che fu proprio un ideologo e religioso, chiamato Muhammad IbnAbd al- Wahhab, che unito alle forze saudite, diede vita al primo regno saudita. Wahhab e i suoi discendenti fornirono ideologia, legittimazione e leadership religiosa al casato Saud; il wahhabismo è una versione settaria e puritana dell’Islam sunnita che chiama ad un ritorno al fondamentalismo letterale e all’intolleranza per ogni forma di deviazione dalla loro linea conservatrice di quello che costituiva l’originale fede del profeta Maometto. I musulmani impegnati in pratiche che potevano essere considerate idolatre (politeismo, venerazione delle tombe dei santi, misticismo ed in generale l’essere sciita) non potevano essere in alcun modo considerati veri musulmani. Forse è opportuno anche riflettere sulla circostanza che la visione settaria e puritana dell’Islam secondo il wahhabismo è parte integrante dell’ideologia anche del gruppo estremista transnazionale terrorista: “Stato islamico”.

Detto questo, il discorso di Trump di fronte ai padroni di causa sauditi non fa altro che amplificare le tensioni tra Riyad e Teheran, spingendosi fino a dichiarare che è l’Iran che finanzia il terrorismo e che tutte “le nazioni coscienziose devono lavorare insieme per isolare l’Iran”.Forse Trump ha dimenticato che dei 19 attentatori dell’11 settembre, 15 erano cittadini dell’Arabia Saudita.

Riallineamento diplomatico a favore dell’Arabia Saudita

Il potente principe Mohammed bin Salman che è anche il ministro della difesa in una recente intervista per alcuni canali televisivi sauditi ha rigettato la possibilità che il regno e l’Iran possano risolvere le loro differenze attraverso il dialogo, dichiarando che l’Iran ha un’ideologia estremista combinata a ambizioni di controllo del mondo islamico.

Finora gli scontri tra Riyad e Teheran sono stati attraverso i proxy (le guerre porxy sono quelle combattute tra gruppi o paesi più piccoli in cui ognuno rappresenta gli interessi di una più grande potenza e che in cambio possono ottenere aiuto ed assistenza). Ognuno sta dalla parte opposta nelle guerre in Yemen, Siria, sostengono fazioni rivali in Libano, Iraq e Bahrain. Il principe ha dichiarato che non aspetteranno che la battaglia sia in Arabia Saudita, ma che lavoreranno perché la battaglia sia per loro in Iran. Teheran ha risposto minacciando di distruggere tutta l’Arabia Saudita lasciando solo i luoghi sacri in piedi.

Le proteste dell’Iran per le dichiarazioni del principe saudita sono arrivate alle Nazioni Uniti attraverso una lettera inviata al Segretario Generale Guterres. L’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite ha categoricamente rigettato le accuse del principe saudita ed ha incolpato l’Arabia Saudita di violare la disposizione della Carta delle Nazioni Unite che stabilisce che gli Stati membri devono astenersi dalla minaccia dell’uso della forza contro altri stati.

Questo acuirsi delle tensioni coincide con un riallineamento diplomatico fortemente a favore di Riad. Un segno che il regno si sente più forte, dopo anni in cui era “costretto” a vedere come l’Iran ottenesse vittorie diplomatiche durante l’amministrazione Obama. I legami diplomatici di Riyad con giocatori chiave nella regione e al di fuori di essa sono cresciuti da quando Trump è entrato in carica.

Mentre le relazioni con gli Stati Uniti e la rafforzata cooperazione militare sono potenzialmente trasformativi nel contesto tra Teheran e Riyad, i passi in avanti diplomatici e militari dell’Arabia Saudita non sono limitati ai legami con l’amministrazione americana. A livello regionale ha ottenuto altri guadagni maggiori. Le relazioni con il Cairo: le forniture di combustibile all’Egitto sono riprese a marzo e il presidente el-Sissi subito dopo ha visitato Riyad. È in corso una discussione sulla questione delle truppe egiziane che si uniranno alla battaglia contro gli Houthi (appoggiati dall’Iran) in Yemen. Un generale saudita ha annunciato che l’Egitto ha offerto di mandare 40,000 truppe di terra per rinforzare la campagna saudita nello Yemen, anche se Riyad poi ha ritrattato la cosa.

Un’altra importante relazione che si era deteriorata, ma che si sta assestando è quella con il Pakistan. Due anni fa l’Iran era inesorabilmente verso la firma dell’accordo nucleare con le potenze internazionali e i sauditi scioccati e irati con Islamabad per aver rifiutato una richiesta di Riyad di aiuto nella guerra in Yemen.Con l’Iran in ascesa malgrado una lunga relazione stabile con l’Arabia Saudita, Islamabad dichiarava che il Pakistan sarebbe dovuto restare neutrale. Ora sembra tutto passato. Il Pakistan sta preparando il dispiego di una brigata, circa 3000 soldati sulla frontiera saudita a sud per aiutarla nella difesa del paese contro gli attacchi Houthi. Il cambiamento di Islamabad potrebbe ben riflettere il mutamento dell’equilibrio del potere e il fatto che il primo ministro dell’India, rivale del Pakistan, ha visitato qualche settimana fa Riyad.

Sul piano militare non c’è un chiaro vincitore. Siria e Yemen, i due campi di battaglia proxy, hanno entrambi l’apparenza di essere ad un punto morto. Se le battaglie proxy di Riyad e Teheran s’intensificano, e la guerra di parole diventa uno scontro totale, l’intera regione sarebbe il perdente.