di Valentina Carboni – Coordinatrice Nazionale Donne Ugl Polizia Penitenziaria

Qual è la motivazione intrinseca che porta una persona a voler diventare rappresentante sindacale? Le organizzazioni sindacali, nate in origine per ottenere una legislazione a tutela del lavoratore, oggi continuano a  marciare numerose e su tutti i fronti perché, in ogni realtà, vi sono problematiche sostanziali socio-lavorative che continuano a ledere i diritti duramente conquistati. Se ipotizzassimo un mondo ideale di rispetto della legalità, della dignità e della vita, nessuno avrebbe bisogno di affidarsi ad un sindacato. Eppure gli acronimi di ogni sigla continuano a crescere proporzionalmente allo scontento. Ciò che però lascia maggiormente interdetti è la lotta che spesso i sindacati intraprendono non con chi lede i diritti dei lavoratori, ma con coloro che rappresentano altre sigle sindacali. Quando poi a talune persone si pone il quesito del perché contrastino chi vuole ottenere ugualmente le tutele, la risposta rappresenta l’apologia del non dire e ciò che emerge non è più il vero senso del fare sindacato, ma il desiderio o l’impellenza di raggiungere un primato.

In talune circostanze si perdono di vista le giuste motivazioni che dovrebbero unire le persone a soccorso e servizio di chi ne ha bisogno e purtroppo l’aspetto economico o di prevaricazione del proprio pensiero prende il sopravvento rispetto al mandato che dovrebbe muovere gli animi dalla base ai vertici. Si dimentica quindi, in questi casi, lo scopo di ciò che si vuole costruire, concentrandosi egocentricamente sul proprio interesse e non sul bene della comunità: tutto ciò perché taluni rappresentanti sindacali credono di essere entrati in possesso quel “potere” che a molti dà alla testa. Se questa è una realtà di fatto, che risulterebbe ipocrisia negare, vi è d’altro canto un gran numero di organizzazioni che costruiscono il loro operato nella collaborazione, nel dialogo, nella condivisione e nell’unione anche confederale, supportandosi vicendevolmente al fine di valutare il “cosa fare” ed il “come muoversi” per ottenere il rispetto della legalità ed il raggiungimento del benessere non solo degli iscritti, ma di ogni singola persona e della comunità. Tutte quelle persone che, mosse da un principio di valore respirano quotidianamente la responsabilità di dover far qualcosa per aiutare chi ne ha bisogno. Uomini e donne risoluti che si mettono in gioco quotidianamente a difesa di coloro che vivono soprusi ed ingiustizie. Rappresentanti che si confrontano con i datori di lavoro ponendoli di fronte allo specchio delle proprie responsabilità e al dovere di apportare modifiche ad una condizione lavorativa troppo spesso ingiusta. Il vero sindacalista pone la Legge alla base del suo mandato e diffonde la conoscenza della stessa a tutela dei diritti. É in questi termini che emerge la filosofia del Kai-Zen, un concetto giapponese che possiamo tradurre in “Cambiare in Meglio”, un “miglioramento lento ma continuo” che dovrebbe rappresentare, a nostro avviso, il punto cardinale indicato dall’ago di un’ideale bussola che guidi ogni organizzazione. Ogni cultura organizzativa si compone di un insieme di norme, valori, atteggiamenti e comportamenti che caratterizzano, anche inconsapevolmente, la vita ed il pensiero di un gruppo, istituitosi nel tempo per risolvere problemi di adattamento e integrazione sia interni che esterni. Sulla base di questi presupposti, la cultura dell’organizzazione sindacale dovrebbe essere e rappresentare gli schemi di relazione orientati ed orientanti a valori individuali e sociali. Per comprendere quindi, quali siano le condizioni fenomenologiche dell’agire, è di fondamentale importanza il ruolo specifico della cultura organizzativa stessa. Nel nostro ideale di progresso e di miglioramento, l’organizzazione dovrebbe essere democratico-partecipativa, mirante allo sviluppo della solidarietà, all’integrazione, all’unione per il perseguimento del risultato ottimizzando le risorse e dovrebbe porre come valori fondanti le qualità globali, la relazione e la realizzazione degli obiettivi comunitari, diffidando dall’aspetto clientelare, ma ascrivendo come propria base il garantismo.

In questa prospettiva il sindacalista del Kai-Zen lavora per il mantenimento di ciò che si è raggiunto a fatica nel tempo e per il miglioramento di quelle condizioni ancora lesive i diritti della persona. Il Kai-Zen infatti rappresenta una strategia di miglioramento lento, costante ma inarrestabile che non si colloca in posizione di rottura col passato, ma di esso si nutre per migliorare il presente e il futuro. Si edificano le fondamenta del proprio lavoro ogni giorno, operando sulla struttura della propria organizzazione, con confronti continui dai quali non emerge un unico punto di vista, ma una visione complessa e completa proiettata al miglioramento. Un atteggiamento di analisi quotidiana del fare e del come fare, valutando ed elaborando, in forma condivisa, tutte le possibili conseguenze dell’agire.

Un’evoluzione sostanziale di una rinnovata structura mentis proiettata allo sviluppo ed alla crescita collettiva, in cui non si lavora solo in termini di prevenzione, ma proattivamente per apportare un concreto miglioramento non solo lavorativo, ma anche e soprattutto alla qualità delle nostre vite. Vi lascio con una testimonianza di vita vissuta che, a mio avviso, permette di comprendere in modo semplice quale dovrebbe essere la spinta interiore al voler diventare un vero rappresentante sindacale.

“Ricordo ancora quel giorno del 1982 in cui acquisii una nuova consapevolezza. Ero una vigilatrice, una donna che lavorava per il Ministero di Grazia e Giustizia, non come poliziotta, ma come civile assunta per vigilare sulle donne detenute. Le mie colleghe ed io non avevamo alcuna preparazione se non quella pratica acquisita attraverso l’assunzione trimestrale rinnovabile, a cui poteva seguire il contratto a tempo indeterminato. Prestavo servizio in una casa circondariale del Nord Est, avevo bisogno di questo lavoro perché ero mamma di quattro figli ed uno stipendio solo non sarebbe mai stato sufficiente. Una mattina mi arrivò un decreto di missione urgente con immediata partenza per Voghera: c’era bisogno di vigilatrici nelle sezioni detentive che ospitavano le brigatiste. Senza batter ciglio partii e mi ritrovai in una realtà dura, difficile, minacciosa e pericolosa. Mi misero subito in servizio, feci per diversi giorni le otto ore contrattuali fino a quando, una mattina presi servizio alle otto, ma alle sedici non arrivò nessun cambio. A mezzanotte mi ordinarono di restare in servizio perché la vigilatrice che doveva darmi il cambio si era ammalata. Finalmente alle otto del mattino, dopo 24 ore di lavoro consecutive in una realtà tutt’altro che facile da gestire, vidi una collega.

Smontai dal servizio, andai nella mia camera in caserma, feci le valigie e passai dal maresciallo per dirgli che mi licenziavo, che avevano finito di sfruttarmi. Il maresciallo non fece aprire il cancello d’uscita, ma mi mandò subito in direzione dove ribadii la scelta di licenziarmi, dissi anche che era meglio un pezzo di pane diviso in sei che un piatto di pasta in cinque ed in quel preciso istante mi fu chiesto e pregato di non lasciare il lavoro e mi furono concessi 9 giorni di riposo.

Ritornai a casa con una nuova consapevolezza: per ottenere qualcosa bisognava agire, ma sapevo anche che da sola non ce l’avrei mai fatta. Qualche mese dopo conobbi una grande donna, Paola Saraceni, che quotidianamente si batteva per la tutela dei nostri diritti. Quando vi fu la possibilità, diventai una rappresentante sindacale con l’unico scopo di tutelare chi ne avesse necessità. Andai in pensione come Ispettore Capo, indossando una divisa prima a noi donne preclusa, con la consapevolezza che solo Uniti si può cambiare e migliorare!(L.M.).