di Daniele Milani

 

Generalmente, quando una tornata elettorale porta al governo, nel nostro caso, di una città come Roma, una fazione politica assolutamente nuova e pertanto mai sperimentata prima, quando la massima esponente di tale fazione arriva al governo con una maggioranza bulgara (certo non di elettori ma di rappresentanti del popolo), quando la città governanta si accinge ad esalare l’ultimo respiro per i mali che la affliggono da almeno 50 anni, ci si aspetterebbe che le persone chiamate alla governance facessero a gara per ottenere un incarico, magari di prestigio non fosse altro per associare il loro nome al promesso, magnificato e atteso rinascimento.

A margine delle iniziative prese dalla nostra sindaca si è invece evidenziato un vero e proprio viaggio al termine della notte di celiniana memoria. A parte pochi intemerati che peraltro hanno occupato poltrone di basso profilo tutti quelli che sono stati chiamati alla guida di assessorati importanti o di costosissime aziende partecipate si sono o chiamati fuori addirittura prima della nomina o dimessi appena nominati

Come mai è accaduto ciò? La risposta è facile: pura e semplice paura ed in alcuni casi terror panico. Paura di quello che è successo finora, paura di quello che potrà succedere, e più semplicemente assoluta sfiducia nella tenuta politica nei confronti di coloro ai quali è affidato il governo politico della Città.

Da ultimo si potrebbe trattare anche di una persole presa di coscienza della incapacità a fronteggiare i poteri che realmente determinano i destini di Roma essendo estranei agli stessi.

E così, tra una dimissione e una mancata accettazione di nomina, la capitale d’Italia continua ad affondare sommersa dai suoi problemi e dalle sue scelte , forse sbagliate, in fase di elezione di una classe dirigente che, anche nel caso che ci occupa, non dirige alcunché.

E così accade che i tre o più porcellini non si fidano delle lusinghe del lupo cattivo ed abbandonano Virginia al suo destino. Passando per il Campidoglio ci sembra di sentire il pianto della lupa, quella vera. Ci viene da dirgli, come nel finale di un bel film di Magni, ( Scipione detto anche l’Africano) Giove si rivolse al simbolo della Città etrna “Che te piagni lupa?”.