di Valentina Carboni – coordinatore Donne Ugl Polizia Penitenziaria – Psicologa e Poliziotto Penitenziario

Nell’arco di due soli giorni altri due nostri colleghi hanno scelto di compiere un gesto estremo. Scrive Giovanni Vasso su Il Giornale: “prosegue la mattanza silenziosa degli agenti della Polizia penitenziaria”.

Le statistiche ci informano freddamente che, dal 2000 ad oggi, i casi di suicidio sono stati più di cento e che, solo nell’ultimo trienno, ne sono avvenuti più di 40. Ciò che fa più male di questa carneficina è tuttavia il ridotto intervento di fronte ad una situazione di emergenza così grave. Balza agli occhi infatti che il trend è in forte crescita, sotto lo sguardo impotente di un’amministrazione che ad oggi non è ancora riuscita ad intervenire tutelando e prendendosi cura dei propri operatori, fornendo quindi l’assistenza indispensabile a coloro che devono garantire sicurezza e rieducazione all’interno degli Istituti Penitenziari.

I colleghi che ci hanno lasciato erano entrambi maschi, di 47 e 50 anni, figli, padri e mariti, poliziotti penitenziari, quando hanno deciso di fermare il loro cuore, i propri pensieri, le proprie emozioni e cognizioni. Esseri umani che per una multicausalità di vissuti esterni ed interni hanno maturato ogni giorno un dolore interiore tale da divenire un “cancro psicologico devastante”, una patologia che senza un indispensabile intervento evolve e si struttura progressivamente uccidendo ogni giorno la speranza, l’autostima, il senso del Sè, l’identità e la motivazione, portando l’uomo ad autocondannarsi e giustiziarsi nel più terribile dei modi. Persone che non hanno trovato né in sé, né nell’altro, inteso come contesto di vita, l’aiuto, la forza ed il coraggio di elaborare e scongelare pensieri e cognizioni gravemente invalidanti.

Potremmo quindi indagare all’infinito sulle motivazioni, le cause e le cosiddette gocce che hanno fatto traboccare il vaso della disperazione che porta ad un gesto così estremo.

Ma non lo faremo, non oggi.

Oggi pensiamo a chi rimane.

Per una volta togliamo quindi i riflettori dalla sola informazione di un dramma avvenuto, ed illuminiamo con delicatezza coloro che si devono confrontare quotidianamente con il fine vita traumatico, anticipato ed autodeterminato.

Pensiamo agli sguardi impotenti dei “survivors”, i sopravvissuti al dolore della perdita di un collega, un amico. L’American Psychiatric Association definisce il trauma derivante dalla perdita di un caro per suicidio come “catastrofico”, parificabile all’esperienza in un campo di concentramento.

Il suicidio è un atto personale che non prende in considerazione le ripercussioni sugli altri. L’interdipendenza percepita che connette i membri di una famiglia, di un gruppo, di un’organizzazione e di una società determina il configurarsi di relazioni affettive, emotive e cognitive, e l’esperienza lacerante del lutto traumatico si ripercuote inevitabilmente sugli altri che difficilmente sono preparati alla morte prematura di un caro, familiare, amico, collega.

Cosa dobbiamo fare se qualcuno con cui abbiamo condiviso parte della nostra vita, mette fine volontariamente ai propri giorni e ci lascia senza spiegazioni?

Sono situazioni in cui chi resta cerca di comprendere, di percorrere a ritroso il tempo ed i luoghi, gli affetti e i dubbi, nel vano tentativo di ricostruire le ragioni di un atto che, in fondo, rimarrà a lui per sempre incomprensibile. Come fare a trovare dei punti fermi di fronte a tante domande senza risposta? Come affrontare sentimenti inevitabili come il senso di colpa e di responsabilità? Il suicidio è un enigma, una non-risposta, e suscita domande che non riceveranno risposta. Anche se il tempo può lenire il dolore, spesso è necessario un aiuto, se non una vera e propria assistenza terapeutica.

I sentimenti che provano i sopravvissuti sono: il senso di colpa per non essere riusciti ad intervenire o di non aver percepito e dato il giusto spessore al bisogno di aiuto; la rabbia verso la persona deceduta perchè non ha trovato la forza né di chiedere soccorso né di resistere al dolore; il senso di vuoto interiore, l’apatia, l’ansia, l’angoscia, la vergogna, sofferenza devastante che nelle situazioni più critiche può provocare patologicamente, pensieri emulativi vissuti malauguratamente come risoluzione del dolore e della depressione.

Bisogna iniziare a guardare al suicidio in carcere, e a quello del poliziotto penitenziario in particolare, come un evento traumatico o stressante causa di disturbo post traumatico da stress, da utilizzare come diagnosi di riferimento per affrontare la vasta gamma di problemi che gravitano attorno a tale fenomeno nel mondo penitenziario. Per superare la terribile prova rappresentata da un lutto traumatico, è necessario attraversare un percorso che va: dallo choc/negazione – torpore/stordimento, alla depressione/ricerca della persona persa, dalla disorganizzazione in cui avviene il riconoscimento della perdita, alla riorganizzazione/accettazione in cui avviene una ridefinizione del sé e della realtà. Si tratta di un lavoro che richiede un intervento terapeutico poichè, soprattutto in caso di suicidio, il lutto può avere gravi ripercussioni psicologiche sui colleghi. In questi casi non bisogna trascurare il loro bisogno di parlare e di condividere il dolore ed il tormento che provano, con qualcuno che possa comprenderlo.

E’ indispensabile, per un Paese che si dichiara civile, agire tempestivamente affinché le ormai evidenti storture del sistema carcerario vengano affrontate con decisione. Il sostegno di persone addestrate a confrontarsi con questa situazione diviene fondamentale.

E’ quindi in questa sede che annunciamo che il nostro Coordinamento, con l’appoggio di tutta UGL Polizia Penitenziaria ed il Sindacato al completo, si batterà per chiedere all’Amministrazione Penitenziaria di procedere quanto prima ad affidare a psicologi professionisti la tutela di tutti coloro che vivono la difficile realtà interna al Carcere: il Ministero della Giustizia ha la responsabilità e la possibilità di intervenire per scrivere la parola fine alla morte per suicidio. I survivors siamo noi.