di Alessandro De Pasquale*

Le carceri italiane sono sempre più sinonimo di luoghi di contaminazione e radicalizzazione di estremisti. Alla problematica del sovraffollamento si affianca, oggi più che mai, quella del terrorismo a causa dell’altissima concentrazione di detenuti di religione islamica. Abbiamo provato ad analizzare la situazione partendo dai dati e giungendo a proporre una “nostra” soluzione.

Detenuti stranieri: I numeri

Sono circa 53 mila i detenuti ospitati nelle carceri italiane, di questi 17 mila sono stranieri a fronte dei 5360 censiti nel 1990.

Con riferiprigione2_lametasocialemento alle aree di provenienza, 8 mila arrivano dal continente africano e più di 7 mila da quello europeo. Elevata è la presenza di soggetti appartenenti alle comunità marocchina, rumena, albanese e tunisina che rappresentano il 60%  del totale degli stranieri reclusi nelle nostre carceri.

Di questi ultimi, il 34% è in attesa di primo giudizio o comunque non condannato in via definitiva e la  percentuale è destinata a crescere visti i recenti fatti di cronaca.

La Bossi-Fini e il sovraffollamento

A contribuire all’incremento vorticoso del numero dei detenuti stranieri nelle nostre carceri è stata, senza dubbio, la Bossi-fini del 2002 che ha accostato il tema dell’immigrazione a quello della sicurezza e della criminalità individuando nuove fattispecie di reato legate ai flussi migratori. Ciò ha inciso profondamente sulla situazione, già critica, dei penitenziari italiani acuendo la preesistente problematica del sovraffollamento.

La radicalizzazione e la contaminazione all’interno delle carceri

A partire dal 2014, e verosimilmente a causa degli ultimi imponenti flussi migratori, si è assistito ad un nuovo incremento del numero dei detenuti stranieri che ha messo in ginocchio il sistema penitenziario italiano. Le carceri sovraffollate, infatti, rendono più difficile e pericoloso il lavoro dei poliziotti penitenziari e vanificano gli obiettivi principali della pena detentiva. Le pessime condizioni di detenzione sono terreno fertile per la radicalizzazione e le prigioni sono diventate il principale luogo di affiliazione e di propaganda per l’integralismo.

Non è più sufficiente separare i carcerati per impedire la “contaminazione”: il problema va affrontato in maniera razionale e strategica, senza farsi tentare da misure occasionali e di impatto solo politico – elettorale.

Gli interventi necessari

Il piano nazionale anti-radicalizzazione, annunciato dal Ministro dell’Interno Alfano, dovrebbe contenere misure concrete per bloccare immediatamente i flussi migratori in entrata ed espellere tutti coloro che sono potenzialmente pericolosi, fronteggiare il sovraffollamento delle carceri con misure adeguate e procedere ad una riforma del corpo di polizia penitenziaria con l’istituzione di un gruppo specializzato, una sorta di “intelligence” all’interno del sistema carcerario esperta nello scovare e gestire  detenuti dal “credo jihadista”. Quest’ultima rappresenterebbe un importante strumento per il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (C.A.S.A.) a cui già partecipa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) con alcune cellule intelligence della polizia penitenziaria.

E’ giunto il momento, per il nostro paese, di dotarsi non solo di personale altamente qualificato ma anche di strutture specifiche per detenuti terroristi di matrice islamica con l’obiettivo di impedire il proselitismo nei penitenziari e mettere in atto azioni concrete di recupero. Fino ad oggi i governi che si sono alternati hanno fornito soluzioni dettate dall’emergenza ed in quanto tali, precarie: il terrorismo si combatte nella pratica e non in teoria, partendo dalle cause e non dagli effetti.

*Segretario Nazionale Ugl Polizia Penitenziaria