di Barbara Faccenda

 

Diceva Francis Quarles: “Lasciamo che la paura del pericolo sia uno stimolo a prevenirlo; colui che non ha paura, fornisce un vantaggio al pericolo”.

Sistema carcerario italiano e reati di terrorismo internazionale

In Italia i detenuti che devono rispondere di reati di terrorismo internazionale vengono inseriti nel circuito penitenziario Alta Sicurezza 2, che prevede sia la rigorosa separazione dal resto degli individui detenuti che il distacco dagli altri detenuti che appartengono allo stesso circuito che però sono reclusi per reati di eversione interna. Quando si parla di detenuti incriminati per terrorismo internazionale, che appartengono magari al movimento jihadista globale, ci si pone la domanda dove e come contenerli all’interno del circuito carcerario. S’intravedono solo due opzioni: quella di concentrarli in un istituto di pena oppure disperderli nel sistema carcerario con svantaggi e vantaggi. Concentrarli permette di tenere i detenuti estremisti in un solo luogo, o almeno in un piccolo numero di case circondariali. In questo modo le risorse specializzate possono essere collocate in pochi luoghi. Tuttavia ci sono delle difficoltà. Questo tipo di detenuti potrebbero organizzarsi e porre problemi di sicurezza senza precedenti. Coloro che fanno parte di gruppi del jihad violento sono abituati ad essere organizzati, fondamentalmente, in piccole cellule e gruppi, in un ambiente carcerario potrebbero invece voler fare un “salto di qualità” e consolidare una più solida forma organizzativa.  Al contrario, disperdere i detenuti estremisti previene la formazione di strutture e legami organizzativi forti in un dato istituto di pena e riduce le opportunità per le figure di leader di mantenere una stretta disciplina e controllo sui detenuti. Tuttavia, la dispersione può fornire ai detenuti jihadisti violenti l’accesso ad una nuova fonte di potenziali reclute.

Non va sottovalutata la possibilità che, nei circuiti comuni, vi possano essere individui che, arrestati per reati minori, portino avanti idee radicalizzate e possano influenzare a loro vantaggio altri detenuti. La religione e la conversione religiosa, da sempre fattore importante nell’ambiente carcerario, ha molto da offrire ad alcuni detenuti a livello spirituale, psicologico e alle volte anche fisico e materiale. Giacché la formazione di un gruppo è la caratteristica dell’esperienza in carcere, ad un livello più pratico, l’affiliazione religiosa può fornire un beneficio materiale al detenuto, come lettere, visitatori e altri mezzi di riconnessione con il mondo esterno. Verosimile è la circostanza che detenuti in circuiti comuni, con idee radicalizzate, possano offrire ad altri detenuti la possibilità di una conversione religiosa basandosi, oltre che sulla loro vulnerabilità, proprio sulla circostanza di poter far parte di un gruppo ed ottenere anche un sostegno materiale/fisico. Il Protocollo d’intesa siglato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni islamiche in Italia (UCOII), il 5 novembre 2015, favorisce l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari.Va detto altresì che l’unirsi a gruppi religiosi e impadronirsi di una identità religiosa non è necessariamente un indicatore dell’attività di radicalizzazione o dell’inclinazione a ciò.

Monitoraggio

L’ufficio ispettivo del DAP effettua un’attività di monitoraggio. I dati relativi alle relazioni comportamentali dei detenuti che guidano la preghiera e l’analisidelle attività quotidiane, già in possesso delle Direzioni degli Istituti, come i flussi di corrispondenza, i colloqui, le telefonate, il flusso di denaro, vengono analizzati e le risultanze dell’attività di monitoraggio esaminate congiuntamente in sede di Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (CASA), di cui fanno parte il DAP, la Polizia di Stato, l’Arma dei Carabinieri, la Guardia di Finanza e le agenzie per la sicurezza interna ed esterna. Nel corso delle riunioni tecniche di questo Comitato, si realizzanoliste dei soggetti di interesse e si valutano interventi da intraprendere.

Che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria prenda parte al progetto europeo RAN: RadicalisationAwarness Network, una rete di professionistie di agenti di polizia e di polizia penitenziaria, di tutta Europa, in prima linea e che lavorano quotidianamente con chi è già radicalizzato o che è vulnerabile alla radicalizzazione, è certo un’occasione per condividere esperienze, ma è necessario che l’Italia punti prima di tutto su:attività di prevenzione efficace e contro – narrativa nel circuito carcerario. Questi due elementi, a nostro avviso, fondamentali per ostacolare il processo di radicalizzazione nei detenuti nel sistema carcerario italiano, passano necessariamente per due condizioni sine qua non:

  1. la formazione del personale della polizia penitenziaria e risorse sufficienti in tutti gli istituti di pena;
  2. impedire il sovraffollamento delle carceri. Questo del sovraffollamento è un fattore di rischio per la radicalizzazione; il personale penitenziario deve essere numericamente adeguato.

L’offerta di un intervento moderato, attraverso la formazione di imam nel carcere. Complessivamente sono solo 9 gli imam che hanno accesso al circuito carcerario italiano a fronte di 195 Istituti di Pena sul territorio nazionale.

Il Ministro dell’Interno Alfano dal Consiglio straordinarioInterni e Giustizia dell’Unione Europea, convocato dopo gli attentati di Bruxelles, (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-03-24/terrorismo-alfano-annuncia-piano-nazionale-anti-radicalizzazione–170129.shtml?uuid=AC8b3HuC) asserisce che il nostro paese deve, dal punto di vista culturale, cioè nel legame che la cultura ha con la sicurezza, varare un piano nazionale anti- radicalizzazione. Benissimo! Avviciniamo le belle e pompose parole del Ministro dell’Interno ai problemi della polizia penitenziaria, alla carenza di personale e mezzi inadeguati, ai problemi gestionali che discendono proprio dalla carenza di personale: carenza di mezzi e risorse economiche dunque. Non è difficile capire che la scarsità di donne e uomini della polizia penitenziaria comporta un abbassamento dei livelli di sicurezza e fa paura se dovessimo per un momento pensare che quelle risorse mancano proprio negli istituti di pena del circuito Alta Sicurezza 2. I corsi di aggiornamento sul terrorismo internazionale devono essere adeguati, offrire al personale della polizia penitenziaria, come a tutti gli operatori che interagiscono con i detenuti, degli insegnamenti sulla nuova minaccia del movimento jihadista, su temi come etnia, cultura, multiculturalità, sul diritto internazionale, insomma corsi tenuti da professionisti dei settori su indicati che siano in grado di formare specialisti.

Infine sottolineiamo che è necessario impedire il proselitismo avviando un processo di contro – narrativa e allo stesso tempo di cambiamento che induca ad abbandonare idee e metodi violenti e riducendo quelle condizioni di vulnerabilità che rappresentano terreno fertile per la radicalizzazione. Questo obiettivo, tuttavia, non può essere affidato esclusivamente ad un ristretto numero di autorità e operatori ma richiede il coinvolgimento di un numero di attori più esteso possibile per la migliore comprensione dei comportamenti e delle strategie di contrasto al fenomeno. Soprattutto richiede risorse umane e materiali più che sufficienti. La cultura si fa a parole, la prevenzione a fatti!