di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Vorrei dire ad Alessandro Di Battista, ex deputato ma a tutti gli effetti esponente del M5s non sempre “allineato” con il Governo gialloblu, che in materia di cogestione non deve «avercela» con tutto il sindacato, casomai solo con una considerevole parte di esso. Per coloro che non lo avessero ascoltato o notato, ieri Di Battista dai microfoni di “Mezz’ora in più”, in onda sugli schermi di RaiTre, parlando di crisi aziendali e di delocalizzazioni ha detto: «Io ce l’ho anche con i sindacati, perché non stanno difendendo i lavoratori. Da loro, in un momento di crisi, in cui i padroni si fottono i denari e le aziende chiudono, mi aspetto che lancino l’idea della cogestione».
A parte la difesa d’ufficio del sindacato nel suo complesso, il quale, al di là delle divisioni ideologiche e soprattutto di metodo, è in prima linea da quando la peggiore delle crisi è scoppiata, nel 2008, con armi spesso inadeguate a fronteggiare la spinta “dissolutrice” della globalizzazione e delle logiche finanziarie, anteposte a quelle sociali e dell’economia reale, non solo voglio ma, anzi, devo rivendicare in qualità di Segretario Generale di una storica Organizzazione che in Italia esiste un sindacato, la Cisnal dal 1950, poi Ugl dal 1996, che della cogestione o, meglio, della partecipazione dei lavoratori alle decisioni e agli utili delle imprese ha fatto il suo, fondante, cavallo di battaglia. Cavallo di battaglia, inserito nello Statuto, per il quale è stata ostracizzata. Da una parte quindi ci complimentiamo con Di Battista per aver individuato il vero nodo attraverso il quale gestire le crisi aziendali e, dal mio punto di vista, modificare profondamente le relazioni sindacali/industriali, che devono superare una volta per tutte la logica conflittuale, e anacronistica, tra Capitale e Lavoro. In realtà la partecipazione in Italia non è uno strumento nuovo, potendo vantare un primo esperimento nella Repubblica sociale italiana con la Carta di Verona, decreto legge sulla socializzazione delle imprese, e perché è stata poi recepita nella Costituzione italiana all’art.46, ma resterebbe comunque uno strumento innovativo – sperimentato con successo in tanti e avanzati Paesi dell’Unione europea – perché mai realmente praticato. Sono d’accordo, quindi, ma solo in parte, con la rabbia espressa da Alessandro Di Battista perché, è vero, i tempi per la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili di impresa in Italia sono assolutamente maturi, per non dire già ampiamente scaduti. La mia rabbia, rispetto a quella di Di Battista, è decisamente più antica e fondata, visto che per la partecipazione combatto da quando ho iniziato a fare il sindacalista e perché è solo per un pregiudizio ideologico della maggioranza dei sindacati e delle imprese se in Italia non è possibile fare ricorso a tale importantissimo strumento, utile non solo a superare le crisi aziendali. La partecipazione andrebbe ben oltre il precipuo fine di portare Capitale e Lavoro a collaborare, piuttosto che a combattersi, nella buona e nella cattiva sorte. La Partecipazione implica un salto culturale da parte di tutti, salto per il quale ancora gran parte del Paese non si sente o non vuole sentirsi maturo. A tal fine confido molto nel Governo gialloblu e da ieri anche in Alessandro Di Battista, con il quale sul tema sono prontissimo a confrontarmi, affinché la partecipazione in Italia diventi una realtà.