di Mario Bozzi Sentieri

Fahrenheit 451 è un romanzo di fantascienza del 1953, scritto da Ray Bradbury. Ambientato in un imprecisato futuro, vi si descrive una società “distopica” (un luogo del tutto spiacevole e indesiderabile) in cui leggere o possedere libri è considerato un reato, per contrastare il quale è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare ogni tipo di volume. Il ricordo di Fahrenheit 451, in particolare dell’omonimo film del 1966, per la regia di François Truffaut, ci è tornato alla memoria in occasione della polemica nei confronti della partecipazione della Casa Editrice Altaforte al Salone del Libro di Torino, polemica scatenata al grido “Mai gomito a gomito con i neofascisti”. Il romanzo di Bradbury affronta il tema delicato della gestione delle informazioni e del controllo della società e – sotto questo particolare aspetto – tratta lo stesso tema dell’altrettanto famoso romanzo di Aldous Huxley Il mondo nuovo, pubblicato nel 1932. In entrambi i romanzi l’attenzione delle persone verso l’operato del governo è annichilita dall’imposizione di un consumo di massa, dove il fine ultimo è l’apparenza, il protagonismo e l’appagamento consumista. I libri sono materiale illegale perché la società deve proteggersi dalle persone che potrebbero mettersi a pensare, istigate proprio dai libri. Il protagonista di Fahrenheit 451 Guy Montag, un pompiere ribelle, che salva alcuni volumi dal fuoco e inizia a leggerli di nascosto, non è difficile assimilarlo a Francesco Polacchi, patron di Altaforte (non è – del resto – un caso che la prima ONC, Occupazione Non Conforme, creata nel 2002 a Roma, in via Tiberina, da Gianluca Iannone, si chiamasse CasaMontag). Ma che cos’è Altaforte Edizioni? Un marchio editoriale, uno dei tanti tra quelli nati negli ultimi anni (tra questi: Ferrogallico, Passaggio al Bosco, Eclettica, Idrovolante) impegnato ad offrire chiavi di lettura alternative rispetto alle interpretazioni omologate e politicamente corrette. Per questo i suoi libri vanno censurati e cacciati in un ghetto? Siamo su un piano squisitamente culturale. Su questo piano va sviluppato il confronto. Per questo l’esposto presentato dal Presidente della Regione Piemonte e dalla Sindaca di Torino nei confronti di Polacchi per il reato di apologia di fascismo mostra tutta la sua debolezza “strutturale”. In ballo ci sono alcune questioni di fondo che riguardano la libertà di pensiero, l’uguaglianza culturale tra i cittadini, il pluralismo delle idee, il diritto a “pensare”. Di questo bisognerebbe parlare, anche in previsione di appuntamenti analoghi, per i quali ci auguriamo non vengano predisposti strumenti preventivi di censura/esclusione. George Orwell, altro autore della letteratura “distopica”, in 1984 scriveva: “L’Ortodossia consiste nel non pensare — nel non aver bisogno di pensare. L’Ortodossia è inconsapevolezza”. Certe denunce, certe scandalizzate prese di posizione (“Mai gomito a gomito con i neofascisti”) sembrano essere in linea proprio con l’Ortodossia orwelliana e dunque con un’idea di pensiero unico, pronto al rogo massmediatico, all’esclusione preconcetta, all’appagamento culturale denunciato da Huxley. Certe prese di posizione di Francesco Polacchi possono anche non piacerci, ma da qui a metterlo alla gogna, nel tentativo di “epurare” la sua impresa editoriale, ce ne passa. A meno che non si voglia applicare i diritti costituzionali a ritmo alternato. Per dirla – anche qui – con l’Orwell de La Fattoria degli Animali , qualcuno pensa evidentemente che – grazie alla patente antifascista – tutti siamo uguali, ma c’è chi è più uguale di altri. E allora al rogo i libri “non conformi”.