di Mario Bozzi Sentieri

“La rivoluzione non si vede”, ha scritto Marcello Veneziani su “La Verità”, evidenziando la continuità ed il sostanziale conformismo culturale al politically correct, da parte dell’attuale maggioranza del governo giallo-verde. Rai, istituzioni e luoghi della cultura continuano a vivere sulla falsariga della storica egemonia di stampo gramsciano. Nulla sembra essere cambiato nella sostanza. I motivi di questa neutralità o remissività sul piano culturale ? Paura di attacchi e quieto vivere; ignoranza della materia; assenza di nomi e conoscenze alternative; penuria di visione culturale, di strategia e lungimiranza. Non capiscono, i governativi, che nessuna rivoluzione sarà mai possibile se non parte e non passa dalle idee, dai luoghi chiave in cui si forma e si stratifica il consenso, dai messaggi, dalla cultura e dalla mentalità. Pensare di cambiare un Paese solo a colpi di tweet e boutade, appelli di pancia e grandi annunci di leggi e riforme, senza nessun racconto, nessuna profonda trasformazione, nessun cambiamento di verso e di simboli, è una puerile, rovinosa illusione. Così facendo e persistendo, passeranno senza lasciar traccia quando il vento cambierà e gli umori si sposteranno su altri temi e altre facce. Non è bastata la lezione del centro-destra che non ha lasciato eredità di alcun tipo sul piano culturale/istituzionale?” Le parole di Veneziani  non hanno suscitato quella indignazione/attenzione che l’argomento richiederebbe. Meglio giocare sul quotidiano, alimentando facili polemiche, che porre e porsi questioni più sostanziali, di prospettiva. Meglio baloccarsi sulle scontate  “appartenenze”, senza impegnarsi a declinarle nell’azione di governo e soprattutto in quei pensieri lunghi, in grado di dare ragioni vere e profonde all’azione politica. Il vero dramma è che certe vicende  riecheggiano denunce già viste e polemiche già ascoltate. Proviamo a ricucire qualche sparso brandello di memoria culturale. Tre nomi tra i tanti: Adriano Romualdi, Marzio Tremaglia, Giano Accame. Uomo di cultura, docente universitario, giornalista “impegnato”, Adriano Romualdi ha rappresentato, negli Anni Sessanta, la nuova generazione del radicalismo nazional-rivoluzionario, interprete di una visione non meramente nostalgica della cultura conservatrice, ma neppure genericamente “di destra”. Alla base della militanza politica e culturale di Romualdi l’idea – espressa nel saggio “Idee per una cultura di destra” (Edizioni de “il Settimo Sigillo”, Roma 1973) – che “per il vero uomo di destra, prima della cultura vengono i genuini valori dello spirito che trovano espressione nello stile di vita delle vere aristocrazie, nelle organizzazioni militari, nelle tradizioni religiose ancora vive e operanti”. Da questa “visione” discende lo stesso impegno politico, che non si accontenta di deboli e retoriche “parole d’ordine”, che non protesta- contro senza sapere bene per-che-cosa, che non si limita ad assecondare paure e convenzioni, che non accetta il qualunquismo culturale ed una generica battaglia per la libertà, ma pone obiettivi all’altezza delle sfide contemporanee, sa confrontarsi con una Storia, sa misurarsi su scala continentale. “Qualunquismo politico, qualunquismo patriottardo, qualunquismo culturale. Questi tre pericoli – scrive Romualdi (“Destra sì! Qualunquismo no!”, Relazione al convegno de “L’Italiano”, Senigallia, 23 – 24 settembre 1972) – si calamitano l’un l’altro. Una vera Destra, una Destra che voglia darsi dei veri contenuti politici e ideologici deve rifuggire da queste tentazioni”. Sul piano politico-amministrativo l’esempio  di Marzio Tremaglia è stato il segno di una destra di governo che avrebbe potuto essere e non è stata. Figlio dell’attivismo giovanile degli Anni Settanta, in una Milano percorsa dalla peggiore violenza fratricida, Tremaglia ha saputo  coniugare impegno politico e visione culturale, pragmatismo e valori, ricoprendo il ruolo di Assessore alla Cultura della Regione Lombardia dal 1995 al 2000, anno in cui muore stroncato da un male incurabile, diventando un esempio di reale “buon governo”.Così lo ha ricordato Gianfranco de Turris (“Marzio Tremaglia, il ministro della cultura che non fu”, in “il Giornale”, 16 aprile 2010): “Marzio aveva capito che non ci si doveva adagiare sulla conquista del potere «politico», ma affermare anche una «visione del mondo». Senza faziosità ma anche senza timori reverenziali nei confronti dei tabù imposti dal conformismo e dal «politicamente corretto», senza l’ossessiva paura di venir criticati per la propria libertà intellettuale da partiti e giornali avversari, da lobby politiche, economiche e religiose. Ecco quindi i convegni sulle insorgenze antigiacobine, sui gulag sovietici, sulla rivolta ungherese, sulla Repubblica sociale, su «destra/destre», su Ezra Pound e su Julius Evola. Finanziò infatti, nel 1998, centenario della nascita del filosofo tradizionalista, un fondamentale convegno ed una storica mostra sulla sua pittura: intervenne alla inaugurazione, nonostante fosse stato visibilmente operato da poco. Non lo dimenticherò mai. Piuttosto sono (quasi) tutti gli altri assessori alla cultura del centrodestra in città grandi e piccole che, nell’arco di dieci anni, hanno sostanzialmente dimenticato o ignorato il suo esempio e la sua testimonianza di efficienza e coraggio culturale, limitandosi tremebondi all’ovvio o al nulla di fatto.” Giano Accame del quale tra pochi giorni cadrà il decennale della scomparsa (15 aprile 2009) si è sempre distinto per la sua volontà “modernizzatrice” non disgiunta però da un’organica visione culturale, denunciando, sulla fine degli Anni Novanta, il rischio, per la “destra di governo”, di essere “normalizzata”, in una sorta di smarrimento ideale, che non poteva non proiettarsi sull’azione politica. A cominciare dal nodo-non-sciolto del rapporto con il fascismo. “Non si può passare – scriveva  Accame (in “La Destra Sociale”, Settimo Sigillo, Roma 1996) – da un’accettazione acritica, rituale, pressoché totale del fascismo (prima di Fiuggi c’era stata un’unica, netta e ripetuta presa di distanza dall’antisemitismo, soprattutto da parte di Almirante, che era stato redattore capo di “Difesa della razza” e ne sentiva il disagio) a disconoscere improvvisamente qualunque parentela. E’ giusto che le generazioni del Duemila siano messe in condizione di poter guardare soprattutto avanti, senza continuare a caricarle di problemi, rancori, discriminazioni provenienti dalla prima metà del secolo. Ma non si può nemmeno privarle della storia e della facoltà di individuarvi elementi di continuità. La fuoriuscita dalla nostalgia fascista è tanto più credibile, quanto più è ragionata e selettiva: non un precipitoso abbandono suggerito dall’opportunismo”. Romualdi, Tremaglia, Accame: tre esempi – tra i tanti che si potrebbero fare – per iniziare ad immaginare (e costruire) quella rivoluzione culturale populista e sovranista all’altezza delle sfide contemporanee e delle aspettative, dati alla mano, della maggioranza degli italiani. Una rivoluzione, usiamo le loro parole, non-qualunquista, antimaterialista, radicata sul territorio, non-normalizzata, coraggiosa e dunque capace di incidere in profondità sul sentire collettivo. Una rivoluzione culturale – per dirla con Veneziani – in grado di spezzare con il vecchio continuismo ideologico e con  il sostanziale conformismo culturale  al politically correct, che tanti danni ha fatto e continua a fare. Con il beneplacito da parte di chi  quella rivoluzione dovrebbe cavalcarla.