Sarebbe facile ricordare il vecchio detto del dito e della luna, eppure mai come in questo caso la verità è davanti agli occhi di tutti. Ebbene, mentre in molti, non tantissimi per la verità, continuano a stracciarsi le vesti – e sono mesi che lo fanno – arrovellandosi su un paio di decimali in più o in meno di prodotto interno lordo, l’Inps ci consegna oggi una fotografia che parla d’altro: nel 2018, le assunzioni sono aumentate del 5,1%, con quelle a tempo indeterminato addirittura del 7,9%. Nel complesso, le nuove assunzioni sono state 7,4 milioni a fronte di poco meno di 7 milioni di cessazioni, con un saldo positivo di oltre 430mila unità. Soprattutto, la cosa che fa ben sperare per il futuro prossimo venturo, quando peraltro comincerà a dare i propri frutti la manovra di bilancio per il 2019 – con quota 100, lo sblocco del turn over e le assunzioni nel pubblico impiego, le diverse misure incentivanti l’occupazione stabile nel Mezzogiorno e fra le giovani eccellenze, lo stesso reddito di cittadinanza con il potenziamento dei centri per l’impiego e l’inclusione sociale attraverso il lavoro – è che le imprese stanno ritarandosi. Dopo la lunga sbornia sui contratti a tempo determinato, seguita alla liberalizzazione prodotta con il Jobs act, si è ripreso ad assumere con contratti stabili a tempo indeterminato. L’analisi dell’Inps sembra confermare che tale svolta sia temporalmente collegabile all’entrata in vigore del decreto Dignità, il quale, come noto, nasce proprio per porre un freno all’esplosione dei contratti a tempo determinato. Che la tendenza sia cambiata, emerge chiaramente anche da un altro dato: quello delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato che sono quasi raddoppiate, da meno di 300mila a 527mila per un più 76,2%. Insomma, numeri importanti che rappresentano una base di partenza importante, uno zoccolo duro, dal quale ripartire per ridare slancio alla nostra economia. Un’ultima riflessione, però, si pone sul versante delle cessazioni. Due aspetti sembrano emergere. Il primo è un aumento delle cessazioni nella seconda metà dell’anno nelle imprese con oltre 100 dipendenti. Il secondo è l’aumento dei licenziamenti disciplinari: il Jobs act, cancellando il riferimento ai contratti collettivi nell’articolo 18, ha aperto una autostrada che passa sopra anche ai diritti di reintegra del lavoratore.