di Mario Bozzi Sentieri

Il titolo, a tutta pagina sull’ultimo numero de “Il Giornale dell’Arte”, è perentorio: “Abiteremo le ex chiese”. Il tema è oggettivamente cruciale per vari aspetti. “Rottamare” una chiesa non è infatti come dismettere un vecchio capannone industriale, una ex caserma o un qualunque edificio degradato e pericolante. “Rottamare” un luogo destinato al culto significa letteralmente “profanarlo”, restituirlo all’uso comune, facendogli perdere ogni aura di sacralità. Manuel Orazi, presentando il dossier de “Il Giornale dell’Arte”, ha sottolineato come che “ci devono essere delle modalità per rendere le chiese profane senza per questo profanarle, evitando ad esempio di farne dei night club o discoteche come invece è già successo a Praga, a Londra, nella stessa Milano”. un passaggio in apparenza scontato, ma che si scontra con una realtà complessa e spesso difficile da gestire. Basti solo pensare a quanto è accaduto alla cappella degli ex ospedali riuniti di Bergamo, venduta all’asta dalla Regione Lombardia, che aveva confidato in un interessamento da parte della comunità rumeno-ortodossa ed è stata invece acquistata, con un’offerta più alta, da un’associazione di musulmani. La rilevanza del fenomeno (solo a Venezia sono stati catalogati trenta casi di chiese “vuote” o comunque solo occasionalmente utilizzate) ha costretto il Pontificio Concilio della Cultura ad approvare, nel novembre scorso, una serie di “Linee guida per le comunità ecclesiali”. Nelle “raccomandazioni finali” il documento fissa alcuni “paletti” generali. In sintesi: sforzarsi di assicurare alle chiese inutilizzate un nuovo uso religioso (ad esempio affidando la chiesa dismessa ad altre comunità cristiane); escludere riutilizzi commerciali a scopo speculativo; preferire adattamenti con finalità culturali o caritative; permettere la conversione ad uso abitativo per le costruzioni prive di valore architettonico; rimuovere, nel rispetto delle vigenti leggi statali, altari, amboni, pulpiti, immagini e arredi sacri. Si tratta di soluzioni di buon senso, che non nascondono, ma non affrontano, i problemi che stanno alla base della “dismissione” dei luoghi sacri: la secolarizzazione avanzata, quindi la diminuzione dei fedeli, del clero e  la pauperizzazione del tessuto sociale (il documento evidenzia come una lettura storico-territoriale più approfondita conduce alla constatazione che molte chiese “erano espressione di confraternite, corporazioni, signorie, municipalità, rappresentanze nazionali, famiglie private e pertanto la moltiplicazione di chiese poteva rappresentare anche uno strumento di auto rappresentazione di strutture sociali e politiche, in gran parte non più esistenti o comunque non più in grado di rappresentarne la conservazione”). L’avviso più ripetuto è di evitare un uso improprio, “sordido”, dei luoghi di culto, laddove gli edifici sacri continuano a conservare “la loro leggibilità evangelizzatrice”, segno di una continuità identitaria che va evidentemente ben oltre la stretta destinazione d’uso. E qui evidentemente la questione  si allarga, coinvolgendo la politica, il mondo dell’associazionismo, della cultura e quanti siano realmente sensibili al tema della crisi contemporanea, in rapporto allo sradicamento spirituale, di cui lo svuotamento dei luoghi sacri è l’effetto più evidente. Non è dunque solo un problema  d’inventari, di gare d’appalto, di riuso compatibile delle chiese. In gioco ci sono fattori d’ordine spirituale che richiedono – da subito – una mobilitazione più ampia sia rispetto all’ambito ecclesiastico che a quello degli operatori di settore, fino a giungere a forme di contestazione dei processi di sradicamento culturali. Chi tace insomma acconsente, diventando complice. Denunciare e contestare la desertificazione religiosa è il primo passo per avviare l’opera di ricostruzione, non solo dei luoghi, quanto soprattutto dell’identità collettiva.