di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Il Festival di Sanremo somiglia molto alla vecchia Democrazia cristiana. O meglio ancora è lo specchio di come siamo noi italiani. Come per il partito che fu di Alcide De Gasperi, Aldo Moro e Giulio Andreotti, così per l’evento canoro succede qualcosa che si replica immutato a sé stesso, nonostante gli anni che passano. Il fenomeno è molto simile. Come per le elezioni delle prima Repubblica era difficile trovare cittadini che in pubblico dichiarassero orgogliosamente ed apertamente di aver votato la Dc, salvo poi scoprire che il partito nella peggiore delle ipotesi si portava a casa almeno un terzo dei voti, così per il Festival della canzone italiana è complicato trovare persone comuni che dichiarino di aver sentito le canzoni in gara. Eppure, anche in questo caso, si scopre il giorno dopo che almeno quattro italiani su dieci sono rimasti incollati davanti alla televisione. Questo perché il Festival è, per molti versi, lo specchio delle contraddizioni del nostro Paese, del detto e, soprattutto, del non detto e del sottointeso, dell’apparire e della realtà. Saranno anche solo canzonette, per parafrasare Edoardo Bennato, però dietro la musica si muove un mondo fatto di quasi 169mila addetti con ricavi diretti ed indiretti di circa 4,7 miliardi di euro. Un mondo che oggi sta cambiando, dove il diritto d’autore è a rischio e nel quale le grandi major decidono chi è bravo e chi invece è destinato al pianobar o al karaoke. Nei giorni scorsi, una tesa assemblea sindacale non ha sciolto la riserva rispetto al futuro del prestigioso coro dell’Accademia di Santa Cecilia, tutto questo mentre la scuola sembra puntare forte sulla musica, fine dalle medie e dal liceo, sull’onda lunga dei talent.