di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

I manager non sono tutti uguali, ma tutti i manager nell’era del liberismo dilagante guadagnano tanto, troppo di più rispetto a impiegati e operai. Una realtà che torna in auge a causa di due episodi molto esemplari. È sulle pagine dei principali quotidiani economici, e non solo, il clamoroso arresto a Tokyo di Carlos Ghosn, il 64enne presidente di Nissan, fautore e regista di una grande operazione, l’alleanza Renault-Nissan-MitsubishiMotors, la quale, qualora andasse in porto, darebbe vita al più grande venditore globale di autoveicoli. L’arresto si deve all’accusa di violazione delle norme che regolano le comunicazioni finanziarie alle autorità di Borsa. In sostanza, Ghosn, oggetto per mesi di un’inchiesta interna tenuta segreta, avrebbe inserito insieme al suo representative director americano, Greg Kelly (a sua volta arrestato), nei report aziendali agli organi di Borsa compensi inferiori a quelli percepiti. In cinque anni fino al marzo 2015, Goshn ha dichiarato alle autorità finanziarie solo la metà dei 10 miliardi di yen, pari a 78 milioni di euro, percepiti, che vanno ad aggiungersi ad altre condotte scorrette. Diametralmente opposto il caso di Lynda Tyler-Cagni, presidente del Comitato risorse umane e remunerazioni di Atlantia Spa, ovvero ex Autostrade Spa, che ieri ha rassegnato le proprie dimissioni «con efficacia immediata» perché in disaccordo con la società rispetto all’opportunità di distribuire incentivi – benché relativi ad un piano di incentivazione del 2013 e già maturati – ai manager del gruppo, alla luce del crollo del Ponte Morandi a Genova. L’importo è di 20 mila euro lordi a manager, la società sostiene, dopo aver ascoltato il parere dei legali, di non poterli sospendere. Fin troppo facile sottolineare quale dei due comportamenti, entrambi, a quanto pare, non in linea con le leggi, sia da preferire. Ma non possiamo lasciare alla spontaneità, alla generosità, all’etica dei singoli la compensazione e la soluzione dei divari esistenti da ormai troppo tempo in un sistema nel quale la redistribuzione della ricchezza diventa sempre di più un miraggio. Non si vuole impedire a un manager valoroso di guadagnare tra retribuzione fissa (la quota più bassa) e retribuzione variabile (composta dal raggiungimento di obiettivi nel breve periodo e di benefit) un altissimo compenso, quello che non va è il rapporto totalmente squilibrato tra la sua retribuzione e quella di un operaio o di un impiegato. Secondo una ricerca dell’Economic Policy Institute nel 2017 il rapporto fra i compensi dei ceo e dei lavoratori è stato di 321 a 1, mentre nel 1965 era del 20 a 1. Stipendi bassi che non reggono il confronto con il costo della vita e che non sono solo il risultato della crisi, ma di una concorrenza sleale, per quanto comprensibile, tra poveri ovviamente non voluta dai “poveri” ma da chi detiene le leve del comando.

Sottolineare il divario non basta e a quanto pare non basta neanche guadagnare compensi miliardari per sentirsi soddisfatti e sazi, se si pensa che altri grandi manager sono stati condannati in attesa di giudizio e messi in carcere per condotte altamente discutibili. È evidente che il sistema deve essere cambiato, perché il processo di sfaldamento del ceto medio e di aumento della povertà nei Paesi occidentali se non arrestato rischia di rendere impossibile qualsiasi forma di solidarietà e di coesione, anche di rispetto verso le istituzioni. Proprio quello che stanno cercando di fare partiti e movimenti che lottano per il cambiamento nei governi e nei parlamenti d’Europa e che qualcuno si ostina a chiamare “populisti”.