di Caterina Mangia

Esattamente mezzo secolo fa, la notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, seimila carri armati e mezzo milione di soldati del Patto di Varsavia – sovietici, polacchi, ungheresi e bulgari – entravano a Praga, spezzando le ali ai sogni e alle speranze della “primavera” cecoslovacca e lasciando la popolazione sbigottita.
Finì così, in maniera brusca e sanguinosa, l’esperimento del “socialismo dal volto umano” portato avanti dall’allora premier Alexander Dubček, che progettava l’introduzione di elementi democratici in tutti i settori della società: dalla parziale abolizione della censura all’apertura delle frontiere, fino alla reintroduzione del diritto di parola e opinione. Progetti che terminarono quella notte del 21 agosto: negli scontri morirono 200 persone.  Dubček fu arrestato e costretto a siglare a Mosca un protocollo orientato a “normalizzare” la Cecoslovacchia e ad azzerare l’azione riformatrice che aveva suscitato troppi consensi popolari, preoccupando l’Unione Sovietica di Leonid Il’ič Brežnev. Il ritorno dell’uomo politico alla guida del Partito Comunista non durò molto: dopo due anni Dubček fu espulso e tornò a fare il manovale.
La primavera cecoslovacca rese evidente un dato, fino ad allora non evidente a tutti, e che anche successivamente è stato messo in secondo piano: ciò che, fuori dall’ombrello sovietico, poteva essere percepito come un’utopia diventata realtà, un sogno popolare realizzato, un patrimonio collettivo di partecipazione ed egualitarismo, era in verità un’imposizione, un regime totalitario. Che utilizzava carri armati e soldati per obbligare la popolazione al consenso. Per dirla con il cantautore Giorgio Gaber: «Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto».