di Gian Luigi Ferretti 

Quest’anno l’UGL ha lanciato una grande campagna di sensibilizzazione sulle morti sul lavoro. Il Primo Maggio a Roma ha installato in Piazza San Silvestro 1.026 sagome di cartone, tante quanto i morti sul lavoro nel 2017. L’evento “Lavorare per vivere” è stato poi ripetuto davanti al Duomo di Milano.
Ed ora è la volta di Marcinelle con l’installazione di 262 sagome bianche (ciascuna con nome e provenienza) davanti al Bois du Cazier in occasione di una delle più grandi sciagure minerarie.
Nessuno si preoccupò quando apparvero sui muri di tutti i comuni d’Italia dei bei manifesti rosa che offrivano lavoro nelle miniere belghe senza fornire alcun dettaglio su questo lavoro, soffermandosi invece sui vantaggi dei salari, delle vacanze e degli assegni familiari.
La realtà che trovarono i lavoratori italiani in Belgio fu, invece, ben altra cosa: un lavoro durissimo e pericolosissimo da affrontare senza alcuna preparazione specifica. Ma, se il sindacato italiano non si interessò minimamente a loro, altrettanto fecero i sindacati belgi.
Il fatto è che il benessere personale dei lavoratori entrava poco nelle considerazioni di strategia politica ed economica alla base dell’accordo stipulato il 23 giugno del 1946 (12 giorni dopo la proclamazione della repubblica Italiana) fra il governo belga e quello italiano che prevedeva l’invio dall’Italia di 2.000 operai alla settimana contro l’approvvigionamento di 200 kg. di carbone per ogni giornata lavorata da ciascuno di loro, fino ad arrivare ad un totale di 50.000 minatori.
Questo ignobile baratto costò la vita a 867 italiani, periti nelle miniere belghe dal 1946 al 1963. Un tributo di sangue al quello si aggiunse quello di migliaia di vittime del killer silenzioso, la silicosi, riconosciuta come malattia professionale dal governo belga solo nel 1963.
Attratti dalle lusinghe di quei manifesti, partirono dall’Italia tanti giovani. Il viaggio somigliava più a una deportazione che a una fuga verso una vita migliore. I lavoratori italiani venivano prima selezionati lungo il percorso. Poi arrivavano in treno a Bruxelles, ma nello scalo merci, non nella stazione passeggeri. E sui camion sporchi che avevano appena scaricato il carbone venivano caricati e trasportati nei campi di concentramento ereditati dalla guerra. Non c’erano le belle case né il benessere promesso ad attenderli. Gli immigrati italiani e le loro famiglie erano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra, sovraffollate, senza acqua ed elettricità, e con i bagni collettivi. Anche le condizioni di sicurezza sul lavoro erano tutt’altro che rosee, gli orari di lavoro massacranti, gli straordinari obbligatori, i diritti sindacali inesistenti.
ll lavoro consisteva nell’estrarre il carbone da sottoterra, a vari livelli, da 765 fino a 1350 metri di profondità, a temperature che arrivavano a 42 gradi, lavorando con picconi e martelli pneumatici, inginocchiati, accovacciati, sdraiati in cunicoli da 50 ad 80 centimetri di altezza, tutti sommersi dalla polvere di carbone. Per otto ore non si usciva fuori; non c’erano servizi igienici e per i bisogni corporali ci si arrangiava come si poteva.
Anche all’alba di quell’ 8 agosto 1956, un mercoledì, 275 uomini scendono nei pozzi. La tragedia capiterà dopo qualche ora, alle 8,10. Le gabbie degli ascensori avevano distribuito le squadre ai vari piani, a quota 765, a quota 1.035. È ai livelli più bassi che, improvvisamente, divampano le fiamme di un incendio: un carrello esce dalle guide e, sbattendo contro le pareti del pozzo, sradica una putrella, trancia i fili della corrente elettrica ad alta tensione senza rete di protezione e la condotta dell’olio. Si sprigionano lingue di fuoco che attaccano le impalcature di legno. Le fiamme si propagano con rapidità. Tutta la miniera è avvolta in una nube opaca. Le sirene suonano l’allarme, la gente accorre ai cancelli, comincia l’angosciosa attesa delle donne per la sorte dei mariti, dei figli. Le squadre di soccorso si calano nell’inferno, tentano di raggiungere la galleria più bassa al livello 1035 perforando un passaggio trasversale dal livello 907. Alla mezzanotte di quel tragico 8 agosto sono stati riportati in superficie nove morti, sei sopravvissuti e sei feriti. Ma il caldo terribile, la caduta di pietre e il cavo del pozzo d’uscita dell’aria che si sta fondendo impediscono il proseguo delle operazioni. La comunicazione tra superficie e fondo è completamente interrotta. Solamente il 12 agosto sarà possibile raggiungere il livello 907. Il bilancio sarà di 13 superstiti appena. Gli altri 262? Per quasi due settimane si alimenterà una vana speranza dichiarandoli ”dispersi”. Man mano che passano le ore senza che nulla accada la folla s’ingrossa. Resterà giorni e notti aggrappata al cancello di quella miniera, ferma e muta nell’attesa di notizie anche quando la parola speranza non sarà che un suono vuoto di ogni significato. Le notizie ufficiali le avrà con il contagocce, i corpi recuperati saranno trasferiti a notte fonda ”nella più grande discrezione” (scrisse La Nouvelle Gazette di Charleroi). Poi, il 23 agosto, le terribili parole: “Tutti cadaveri”. Un lutto terribile colpisce 248 famiglie (più della metà italiane), provocando 417 orfani. A quota 1.035 viene trovata una scritta agghiacciante nella sua semplicità: ”Fuggiamo davanti al fumo. Siamo una cinquantina. Andiamo verso il punto quatre paumes. Otto agosto, ore 13.10″. Le pesanti responsabilità dei dirigenti della società mineraria non verranno riconosciute in tribunale.
In Italia lo sgomento dell’opinione pubblica fu interpretato dall’On. Gianni Roberti, cofondatore della CISNAL, che nella seduta della Camera del 9 ottobre 1956 bollò come “Non degno di uno Stato, di un paese sovrano” il fatto che “la situazione, per quanto riguarda i nostri minatori nel Belgio” dopo la tragedia fosse “immutata, cioè è allo stesso punto in cui era prima del disastro di Marcinelle” in quanto “nessuna garanzia di sicurezza hanno i nostri lavoratori, perché l’inchiesta in Belgio si svolge senza la partecipazione delle nostre rappresentanze sindacali”.
Il Presidente della CISNAL continuò: “Noi non possiamo avere fiducia alcuna nei sindacati belgi, in quella che sarà̀ la loro azione di tutela, perché́ essi sono perfettamente d’accordo con i padroni delle miniere. Sebbene i sindacati belgi siano dominati dai socialisti e socialista sia anche il governo di quel paese, ambedue sono d’accordo nel riservare alle miniere buone e sicure i lavoratori belgi e nel confinare i lavoratori stranieri, e italiani in ispecie (questa è la solidarietà̀ dell’internazionale socialista !), nelle miniere marginali, in quelle che non hanno alcun dispositivo di sicurezza e non offrono alcuna garanzia.”
E ancora: “Non è possibile lasciare le cose in questo stato, non è concepibile restare inerti, sapendo che le condizioni delle miniere sono quelle di ieri, che i nostri lavoratori sono esposti agli stessi rischi cui erano esposti ieri. 
Chiediamo formalmente che il Governo esamini innanzitutto se e nostre relazioni con il governo belga in questo momento, per questo fatto, non debbano subire quelle modifiche e quelle ripercussioni di ordine diplomatico e internazionale che il principio della reciprocità consiglia che ponga allo studio subito delle misure atte a influire sulla migliore tenuta delle miniere, tanto più che non ci è possibile neppure mandare i nostri rappresentanti sindacali a svolgere gli opportuni accertamenti. Il governo ed i sindacati belgi non ci danno alcuna fiducia, né come istituti né come persone, perché si sono dimostrati assolutamente al di fuori di ogni principio di solidarietà internazionale, avendo riservato le miniere di tipo marginale ai lavoratori stranieri. Era fatale che dovessero avvenire queste conseguenze. Quando ci si trova di fronte a situazioni di questo genere, si deve immediatamente studiare un piano per allontanare i nostri lavoratori.”

Una denuncia talmente forte e circostanziata quella dell’On. Roberti da obbligare il governo ad annullare subito il famigerato accordo italo-belga e ad arrestare finalmente l’emigrazione verso il Belgio.