Il misterioso suicidio del “pirata” della chimica italiana

Sono trascorsi venticinque anni dalla morte di Raul Gardini, avvenuta il 23 luglio del 1993 al culmine delle vicende di Tangentopoli di cui l’imprenditore romagnolo era diventato, suo malgrado, uno dei protagonisti. Il caso fu archiviato come suicidio, anche se il fatto che dalla pistola con la quale Gardini si sarebbe ucciso mancassero due colpi e non uno solo diede adito a molti dubbi. Era il giorno in cui l’industriale avrebbe dovuto testimoniare al pool di Mani Pulite in merito alla  più grave scandalo di corruzione mai avvenuto in Italia: “la madre di tutte le tangenti” ovvero i circa 150 miliardi di lire pagati da Gardini e dalla Ferruzzi-Montedison alla quasi totalità dei partiti della cosiddetta “prima repubblica” per ottenere un divorzio vantaggioso dall’Eni, dopo il fallimento dell’esperimento della joint venture pubblico-privata Enimont, il progetto che aveva dato vita ad un colosso di dimensioni mondiali nel settore della chimica grazie alla fusione di EniChem e Montedison. Pochi giorni prima si era tolto la vita, nel carcere di San Vittore, anche Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni, in custodia cautelare per alcuni reati sempre legati alla gestione del colosso pubblico dell’energia. Se l’inchiesta sulla tangente Enimont svelò il sistema di corruzione e di finanziamento illecito dei partiti, se buona parte delle perdite furono addossate ai contribuenti, la vicenda resta avvolta comunque da un alone di mistero e con la fine di Gardini si conclude anche la parabola della chimica italiana e forse anche la speranza di una maggiore indipendenza industriale ed energetica del Paese.