di Caterina Mangia

«Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».
Paolo Borsellino sapeva che avrebbe perso la vita a causa delle sue coraggiose battaglie. E’ successo terribile domenica del 1992: era il 19 luglio quando, alle 16.58, una Fiat 126 imbottita di 90 Kg di esplosivo e parcheggiata in via D’Amelio uccise il magistrato e tutta la sua scorta.
A 26 anni da quella data, la verità su quanto avvenuto è ancora un miraggio lontano. Non soltanto non è stata fatta giustizia, ma le indagini, come recentemente confermato dalle motivazioni della recente sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta, sono state oggetto di «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Tra falsi pentiti e finti Servitori dello Stato, la ricostruzione dei fatti e dei responsabili della strage di via D’Amelio è rimasta avvolta in una cortina di fumo. «Onorare la memoria del giudice Borsellino e delle persone che lo scortavano», ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, «significa anche non smettere di cercare la verità su quella strage»: «Insieme al collega e amico Giovanni Falcone, Borsellino è diventato, a pieno titolo, il simbolo dell’Italia che combatte e non si arrende di fronte alla criminalità organizzata». Anche il premier Giuseppe Conte ha ricordato su Twitter Borsellino e la sua scorta, aggiungendo che «la ricerca della verità su Via D’Amelio è un dovere per l’Italia che crede nel loro esempio e nell’onestà. Il Segretario Generale dell’Ugl, Paolo Capone, guarda al futuro: «La morte di Paolo Borsellino, vittima della mafia per difendere la giustizia e la verità nel nostro Paese, deve essere un esempio di educazione alla legalità per i giovani, il che vuol dire divulgare quei valori sani per cui è morto, a partire dalle scuole».