di Caterina Mangia

C’era una volta il vinile, poi è arrivato il long playing. Nel 1963 è comparsa la prima musicassetta, lato A e lato B. Gli anni Novanta hanno visto l’affermazione del compact disc. In seguito è stata la volta dell’Mp3, del download e infine della musica in streaming.
Attualmente, secondo il Consumer Insight Report di Ifpi, il digitale vale il 50% dell’industria di musica registrata: con 100 milioni di utenti a pagamento e ricavi in aumento del 29% anno su anno, lo streaming agisce da fattore trainante del mercato.
Benvenuti dunque nell’epoca della musica “liquida”, ovvero fruibile senza un supporto fonografico materiale: un’epoca in cui, volendo, si potrebbero produrre album e pezzi musicali di durata infinita, perché non più soggetti ai limiti imposti da un disco tangibile. Eppure, come ha sottolineato oggi su Repubblica Gino Castaldo, la tendenza è quella di produrre album molto brevi: «pensando a come si ascolta oggi la musica, pare quasi incredibile che si ragioni in termini di album».
Una possibile spiegazione risiede nel fatto che nell’epoca della comunicazione veloce, dei tweet, dei post e del bombardamento da notifiche, la capacità di attenzione e concentrazione delle persone, e con esse degli ascoltatori di musica, è in netto declino: va bene ascoltare brani musicali, purché siano brevi e richiedano scarsi sforzi cognitivi. Per dirla con Castaldo: «l’idea di album è ancora lì che resiste, ma sta affogando in un oceano di liquidità».