di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Fino a pochi anni fa, con una certa dose di sarcasmo, la classe politica italiana era dipinta come una fra le più ostili al ricambio generazionale. Si restava nel recinto stretto delle “giovani promesse” almeno fino ai 50 anni compiuti e le faccende più serie venivano immancabilmente sbrigate da leader che altrove sarebbero stati da tempo in età da pensione. Impietosi i confronti anagrafici con i politici degli altri Paesi europei ed occidentali. Fra le tante cose che sono cambiate in questo burrascoso passaggio, ancora in fieri, dalla seconda alla terza Repubblica, c’è anche questa. Osservando le forze politiche attualmente presenti in Parlamento, salta agli occhi il minimo comune denominatore della giovane età dei segretari di partito. Da sinistra a destra l’ondata dei quarantenni ha travolto le passate dirigenze. Resistono solo alcune vecchie glorie, da Berlusconi a Mattarella a Grasso, in un mondo ormai decisamente ringiovanito. Matteo Renzi, classe ’75, si contende la leadership del Pd con il reggente Martina, nato nel 1978. Alle prese con la formazione del probabile nuovo governo, Matteo Salvini, segretario della Lega, del ’73, e il giovanissimo “capo politico” dei 5 stelle, Di Maio, nato nel 1986. Nel fronte del centro-destra, Giorgia Meloni, unica leader donna nel panorama politico attuale, del 1977. Non si tratta di casi isolati o specchietti per allodole. È, invece, la rappresentazione, giunta anche ai massimi vertici dei partiti, di una classe politica effettivamente rinverdita. Lo dimostra il fatto che il nuovo Parlamento, quello uscito dalle urne il 4 marzo, ha stabilito un record come il più giovane della storia repubblicana, con l’età media dei nuovi onorevoli scesa a 44,33 anni, per la prima volta approdata sotto la soglia dei 45. Naturalmente non è certo l’età a fare di un politico un buon amministratore, né è necessario essere anagraficamente giovani per avere idee innovative, ma, nell’Italia che fatica a riconoscere alle nuove generazioni una giusta collocazione nella società è comunque un segnale positivo. Stavolta il mondo politico offre un buon esempio che sarebbe necessario fosse finalmente seguito anche dalla società civile. Specie nel mondo del lavoro, dal quale i giovani sono ancora significativamente esclusi, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Nel novero delle varie e diverse riflessioni che sono scaturite all’indomani dello tsunami elettorale dello scorso marzo, possiamo aggiungere anche questa: tra le sempre più forti istanze di cambiamento emerge anche il bisogno di dare finalmente piena cittadinanza ai giovani italiani, a quella generazione di trentenni e quarantenni finora relegata in un ruolo subalterno, schiacciata dal precariato, scippata del proprio futuro e che invece chiede a gran voce di partecipare appieno alla costruzione dell’Italia del domani.