di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Non venisse a dire proprio a noi, i gufi dell’Ugl, che non lo avevamo avvisato. È addirittura da quando il Jobs Act ha iniziato a prender forma che non abbiamo smesso di contestare la sua riforma e non per partito preso ma nella precisa convinzione – poi suffragata dai fatti – che quelle norme avrebbero drogato e moltiplicato all’ennesima potenza la precarietà, un male da cui era già affetto il mercato del lavoro italiano. Abbiamo contestato duramente anche altri atti del Governo Renzi in coerenza con i nostri principi e con la mission di una Organizzazione sindacale che è quella di difendere i diritti e gli interessi dei lavoratori e dei pensionati, nonché, in aggiunta, quella di consegnare un futuro degno di questo nome ai giovani.
Dopo la batosta elettorale, Matteo Renzi avrà capito di aver sbagliato? A quanto pare no e questo si evince sia dalle “dimissioni in differita” date ieri sia dalle parole espresse in cui è stata veramente scarsa, se non del tutto assente, quella sana autocritica che sarebbe stata più che mai opportuna.
Rimandare le dimissioni alla formazione del Governo significa voler far passare ancora molta acqua sotto i ponti e voler trasformare una sonora sconfitta in una sottospecie di rivincita, dimostrando che il Pd, con il «no a inciuci e a caminetti», può essere ancora l’ago della bilancia per la formazione del nuovo governo. Certo, se la mettiamo sul piano dei numeri che sorreggono gli equilibri istituzionali potrebbe essere vero, ma se la mettiamo sul piano della politica e dei voti, Matteo Renzi dimostra, prima ancora di non voler comprendere, di non voler rispettare la volontà degli italiani, quegli stessi italiani che ha pensato di convincere a colpi di slide, di battute a effetto e di una roboante quanto controproducente strategia mediatica.
Scrive oggi su Facebook: «Nei prossimi anni il PD dovrà stare all’opposizione degli estremisti. Cinque Stelle e Destre ci hanno insultato per anni e rappresentano l’opposto dei nostri valori. Sono anti europeisti, anti politici, hanno usato un linguaggio di odio».
Ancora una volta il centro sinistra, se il Pd può essere ancora definito tale, si dimostra campione e successore di quella tradizione che indica come “male” tutto ciò (e tutti coloro) che non si conformano alla linea del pensiero unico, quel pensiero unico che è sopravvissuto per anni grazie alla “conventio ad excludendum” di partiti e associazioni non gradite (altro che “vera svolta”, altro che “rottamazione”), fino a portare allo sbando l’Italia e l’Europa intera con la novella del riformismo. Senza rendersi conto che esprimendosi in questo modo, ancora oggi, non sta etichettando solo altri partiti politici o un’organizzazione sindacale come la nostra, ma anche la stragrande maggioranza degli italiani.

Lo psicodramma del centro sinistra su Facebook

Mentre Matteo Renzi deve continuare a spiegare su Facebook che «le elezioni sono finite, il Pd ha perso, occorre voltare pagina. Per questo lascio la guida del partito. Non capisco le polemiche interne di queste ore. Ancora litigare? Ancora attaccare me?», Matteo Orfini si sente costretto a redarguire: «Davvero oggi vorrei fossimo seri e sinceri ed evitassimo di nascondere quello che è il punto vero del dibattito scatenato ieri. Non le dimissioni di Renzi, che ci sono. Ma cosa deve fare il Pd. C’è un pezzo del gruppo dirigente del nostro partito che non si rassegna a stare laddove deciso dagli elettori, e cioè all’opposizione».
Sono solo panni sporchi o il primo congresso della storia sui social media?