di Caterina Mangia

«Da dove, mi chiedevo spesso, deriva il principio della vita? Era un interrogativo ben arduo, uno di quelli che sono sempre stati considerati senza risposta, e tuttavia di quante cose potremmo venire a conoscenza se codardia e negligenza non ostacolassero la nostra ricerca!».
Sono passati esattamente due secoli – era il 1818 – dalla pubblicazione del romanzo “Frankenstein – Il moderno Prometeo” di Mary Shelley: la vicenda intensa e drammatica di una creatura mostruosa a cui un audace scienziato dà la vita, ma che si ribella al suo creatore. Il titolo richiama la storia del Prometeo della mitologia greca: un titano che creò l’umanità modellandola dall’argilla, e che per questo fu punito da Zeus.
A duecento anni di distanza dall’uscita del libro, si può confermare che l’opera nata dalla penna della scrittrice ha incarnato profeticamente le promesse e le paure che l’incipiente sviluppo tecnologico iniziava a insinuare nelle coscienze – e nell’inconscio – collettivi.
Quali sono i limiti “naturali” di un individuo umano?Quando si può dire che “l’integrità” della sua persona è in discussione?
Quali sono i confini tra “vita” e “artificio”, tra la Fusis, che sgorga in modo spontaneo da Madre Terra, e la Tecne, il frutto della manipolazione dell’uomo sul mondo circostante? E fino a che punto l’intervento umano può alterare l’armonia prestabilita degli insondabili ordini cosmici?
Questi interrogativi, connaturati all’essere umano, hanno iniziato ad affacciarsi con urgenza agli albori dell’odierno sviluppo scientifico e tecnologico – gli esperimenti sul galvanismo, sulla materia inerte e sull’elettricità contemporanei a Mary Shelley influenzarono profondamente la sua opera -, tanto da rendere progressivamente attuali le discussioni di bioetica.
Quali che siano le convinzioni culturali e personali sul tema, a tutt’oggi è sempre con un misto di meraviglia e di terrore che ci affacciamo alle avveniristiche “prodezze” della scienza, soprattutto quando applicate alla vita e alla salute. E’ il caso di due recenti conquiste nel campo della medicina: è stato effettuato a Parigi il secondo trapianto facciale, a sette anni di distanza dal primo, a un uomo che aveva avuto un grave problema di rigetto. Nel corso della vita, il paziente ha dunque “indossato” tre volti: si tratta di qualcosa di sublime, e al tempo stesso terrorizzante.
E’ invece di oggi la notizia che i primi ovociti umani sono stati coltivati in laboratorio fino a completare l’intero processo di maturazione: per la prima volta, è stato “aggirato” il ruolo materno nella prima produzione della vita. Un risultato strabiliante, destinato a rivoluzionare le tematiche relative all’infertilità; al tempo stesso, profondamente inquietante.
I benefici sull’uomo del progresso in campo scientifico  sono innegabili; altrettanto innegabile è lo spavento e l’inquietudine che nascono dalla sensazione di aver superato dei limiti, violato equilibri “sacri”.
Siamo e restiamo dei moderni Prometei: “onnipotenti” e, al contempo, smarriti e  impauriti di ricevere una “punizione divina”.