di Caterina Mangia

Un uomo magrissimo e con lunghi capelli biondi, le cui fattezze rievocano le icone di Cristo, indossa un paio di pantaloni all’ultima moda; con lui, una donna stretta in un moderno abito bianco: è evidentemente Maria. A scanso di ogni dubbio, sulle immagini campeggiano le esclamazioni «Gesù, Maria, che stile!» e «Madre di Dio, che vestito!».
L’utilizzo dei simboli religiosi a fini pubblicitari è lecito o, quantomeno, di cattivo gusto? E qual è il discrimine tra ciò che è innocuo e ciò che è offensivo?
E’ questa la riflessione che si affaccia alla mente dopo che la Corte di Strasburgo ha condannato la Lituania per aver multato un’azienda di vestiario operante nel Paese e autrice delle immagini sopra descritte: nel 2012, la campagna pubblicitaria urtò numerose sensibilità, suscitando una reazione a catena che culminò con una sanzione all’impresa per offesa della morale pubblica. Adesso, a distanza di anni dall’evento, la Corte di Strasburgo ribalta la situazione, condannando a sua volta la Lituania per l’ammenda inflitta. Pur ammettendo un margine di manovra che le autorità nazionali hanno diritto di esercitare in ambito religioso, i giudici hanno infatti concluso che le pubblicità in questione «non sembrano essere gratuitamente offensive e profane», aggiungendo che «non incitano all’odio».
Il confine tra la libertà di espressione e la tutela dell’altrui sensibilità è sempre stato scivoloso: l’unica cosa certa è che si contano veramente sulla punta delle dita i simboli religiosi, i personaggi storici, le ideologie sono scampate al merchandising, alla pubblicità e, in senso lato, al riutilizzo da parte del libero mercato.