di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Ha ancora più senso oggi, a quasi cinquant’anni di distanza e con un’Europa cosiddetta unita, ricordare la figura di Jan Palach, giovane martire nel nome della libertà e della sovranità del suo Paese, la Cecoslovacchia allora dominata dall’Unione Sovietica. La sua lotta disperata contro il comunismo e contro la paura, più che legittima dei suoi concittadini, ha avuto ragione molti anni dopo la sua morte con la caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989. Ma oggi, a distanza di quasi trent’anni, purtroppo per noi e per il sacrificio di  Palach, non possiamo affermare che il comunismo sia stato del tutto sconfitto. Semmai ha cambiato forma e nel ventaglio di tante possibilità-opportunità che la libertà e la democrazia avrebbero potuto offrire, il comunismo, in quei Paesi in cui è sopravvissuto, come la Cina ad esempio, ha scelto solo l’occasione del libero mercato.
Il connubio tra comunismo e liberismo si è rivelato, per molti Paesi del mondo, per i rispettivi sistemi industriali e per milioni di posti di lavoro andati in fumo, non meno fatale. In patria il “nuovo comunismo” non ha smesso di comprimere le libertà dei suoi cittadini e di sfruttare il lavoro, così come nei mercati in cui è protagonista, grazie alle aperture del mondo occidentale, non ha mai smesso di esercitare la sua egemonia economica e finanziaria, quindi politica. Gli Stati Uniti lo sanno molto bene.
Ciò va detto non per sminuire il sacrificio di Jan Palach ma per contestualizzare meglio la paura che, all’avvicinarsi delle elezioni politiche, il punto più alto e più sacro nella vita di una democrazia, viene ultimamente sempre più agitata dalla Commissione europea nei confronti di quei Paesi e soprattutto di quei cittadini che potrebbero essere tentati di cambiare governo, verso destra, con il loro voto. Come se fosse un peccato mortale. È accaduto alla Francia, all’Austria, oggi all’Italia che si vede affibbiare dal Commissario all’economia, Pierre Moscovici, il marchio “infamante” di rappresentare una fonte di rischio instabilità politica per l’Europa.
Le istituzioni europee sanno benissimo ormai quanto i cittadini italiani, più o meno distanti dalle politiche dei tanti governi tecnici di centro-sinistra rimasti in carica fino ad oggi, siano stanchi di politiche economiche e sociali europee e italiane che hanno distrutto i diritti e le risorse economiche del ceto medio; quanto siano stanchi di essere cittadini a metà a causa di ridimensionamento sempre più forte e evidente della sovranità dei propri governi.
Così l’Ue invece di cambiare le sue politiche, come sarebbe opportuno e normale in un sistema democratico, agita la paura, lo spettro di enormi “rischi neri” pur di convincere i cittadini a votare secondo le sue preferenze e a continuare a mangiare sempre la stessa minestra. Se tale condizionamento da parte della Commissione europea non può essere definito un “soft regime”, pena essere accusati di populismo, di antipolitica, – quando invece ciò che si chiede è più politica, più sovranità e meno euroburocrazia, – si fa sempre più fatica, a percepirlo come un limpido richiamo alla democrazia e alla libertà.

 La storia di Jan Palach, eroe nella Praga di 30 anni fa

Il 16 gennaio 1969 il giovane Jan Palach, studente universitario di 21 anni, sceglie di mettere in atto un gesto estremo di protesta contro l’occupazione e la repressione dell’Unione sovietica nel suo Paese. Si cosparge di liquido infiammabile e si dà fuoco in piazza San Venceslao al centro di Praga, ai piedi del Museo Nazionale.  Palach come molti studenti è un sostenitore della Primavera di Praga, il movimento avviato dal riformista cecoslovacco Alexander Dubček che, una volta al potere, intendeva introdurre maggiori diritti e per questo il movimento fu represso militarmente il 21 agosto del 1968 sempre dall’Unione Sovietica con l’aiuto dalle truppe del Patto di Varsavia che invasero la Cecoslovacchia. Tre i giorni di agonia per il giovane Palach che muore il 19 gennaio.