di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

A causa della crisi, i nostri giovani sono spesso costretti a scegliere fra la prospettiva di abbandonare il Paese e quella di accontentarsi di varie forme di sotto occupazione. In questo contesto vanno inquadrate società come Uber, Foodora, Airbnb ed altre, che hanno esportato anche nel nostro Paese la cosiddetta «gig economy», l’economia dei lavoretti. Studenti, giovani disoccupati, ma anche lavoratori che devono arrotondare un salario troppo magro si iscrivono alle piattaforme web offrendo quello che hanno a disposizione: un’auto per un passaggio, una bici per una consegna, una stanza da affittare, per ottenere spesso in cambio solo pochi spiccioli. Una recente inchiesta ha, infatti, attestato che in Italia, il 60% dei lavoratori della gig economy guadagna non più di 50 euro al mese, il 18% tra 50 e 100 euro, mentre solo l’1% arriva a superare i mille euro. A ricavarci molto sono invece i gestori delle piattaforme web che nei casi più famosi vantano fatturati di tutto rispetto. Finora la politica, nazionale e comunitaria, si è occupata della questione solo dal punto di vista fiscale cercando di imporre alle multinazionali del web di contribuire equamente all’erario. Dato che questa nuova forma di attività si sta diffondendo rapidamente, occorre però disciplinare anche altri aspetti fondamentali come la concorrenza sleale con le imprese tradizionali ed i rischi per la salute e sicurezza degli utenti, dovuti all’utilizzo di beni e servizi non controllati adeguatamente. È poi necessario tutelare i lavoratori coinvolti, i «gig workers» per evitare che, facendo leva sui bisogni generati dalla crisi, possano diffondersi nuove forme di sfruttamento, come già sta succedendo grazie al fatto che questa nuova forma di lavoro è difficile da inquadrare nelle norme che distinguono e disciplinano il lavoro dipendente e quello autonomo. Una situazione poco chiara su cui si sta finalmente aprendo un dibattito politico, come testimonia la maggiore attenzione dedicata dalla stampa, dal Sole 24 Ore a La Repubblica fino al Fatto Quotidiano di ieri. La gig economy può anche essere un’occasione di sviluppo e lavoro, ma purché rispetti le leggi, sia inserita nel contesto delle norme che tutelano imprese e consumatori e purché non rappresenti un ulteriore arretramento nel campo della tutela del lavoro.

L’economia dei lavoretti va regolamentata

La gig economy è una nuova forma di commercio che si svolge tramite internet. La novità sta nel fatto che questa attività si compone di due soggetti: la grande piattaforma web che mette a disposizione pubblicità ed intermediazione e le singole persone che aderiscono offrendo beni o servizi non professionali a pagamento. Però spesso è la piattaforma a decidere orari e compensi. Così i gig workers hanno i doveri dei dipendenti e i rischi degli imprenditori, per pochi spiccioli. Occorrono regole chiare per evitare lo sfruttamento.