Avv. Giovanni Magliaro

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il lavoratore ricorrente non ha alcun onere di allegare eventuali altre posizioni lavorative, compatibili col suo bagaglio professionale, nelle quali egli avrebbe potuto essere utilmente ricollocato. L’impossibilità del riutilizzo (c.d. repechage) del lavoratore deve essere provata unicamente dal datore di lavoro.
Una interessante sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione (n.160 del 5 gennaio 2017) conferma un recente orientamento della Corte in merito all’obbligo del cosiddetto repechage a carico del datore di lavoro. Secondo tale orientamento la prova dell’adempimento dell’obbligo di cercare il riutilizzo del lavoratore in altre mansioni prima di procedere al licenziamento spetta esclusivamente al datore di lavoro senza che sia minimamente possibile configurare un onere del lavoratore di allegare eventuali posizioni nelle quali sarebbe possibile reimpiegarlo.
Il datore di lavoro per dimostrare la effettiva sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento dovrà, tra l’altro, indicare le posizioni all’interno della propria organizzazione aziendale che sarebbero state compatibili col profilo professionale del lavoratore e provare per quali motivi il reimpiego di quest’ultimo non è stato possibile.
La sentenza di merito del Tribunale di Firenze aveva respinto il ricorso del lavoratore sostenendo che il licenziamento era sorretto da una causale oggettiva. Sotto il profilo della impossibilità del reimpiego del dipendente in mansioni diverse da quelle in precedenza a lui ascritte il Tribunale rimarcava che l’onere probatorio posto a carico della parte datoriale non andava inteso in senso rigido ma che si doveva esigere dal lavoratore una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage. Solo dopo che il lavoratore avesse indicato posti possibili sarebbe stato onere del datore di lavoro dimostrare la non utilizzabilità di tali posti.
La Cassazione ha totalmente rigettato tale impostazione. Al giudice compete di controllare la reale sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro che ha l’onere di provare l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto. Peraltro la dimostrazione della effettività delle ragioni sottese al provvedimento espulsivo non è sufficiente da sola ad integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo dal momento che è indispensabile la prova della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti. Il licenziamento deve essere la extrema ratio.
Sul datore di lavoro incombe dunque l’onere probatorio inerente sia alla concreta riferibilità del licenziamento a effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo sia alla impossibilità di riutilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui lo stesso era precedentemente adibito. L’onere in questione si deve ricondurre al principio generale della buona fede che impone a ciascun contraente di soddisfare i propri interessi nel modo meno pregiudizievole per la controparte.
Per inciso la Corte sottolinea che questa interpretazione è in linea col principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o l’altra parte di offrirla. Mentre il lavoratore non ha accesso al quadro complessivo della situazione aziendale per verificare dove e come potrebbe essere riallocato, il datore di lavoro ne dispone agevolmente, sicché è anche più vicino alla concreta possibilità della relativa allegazione e prova.