di Francesco Paolo Capone

Segretario Generale Ugl

I cahiers de doléances erano quei quaderni sui quali le Assemblee degli Stati generali francesi nel 1789 annotavano le lamentale che il popolo, e non solo, presentava al re Luigi XVI. Come andò a finire è noto: le denunce e le rimostranze superarono di gran lunga gli aspetti positivi, finendo per diventare la miccia che fece esplodere la Rivoluzione che incendiò l’Europa. Allora come oggi, pur con tutte le differenze del caso, il popolo è sofferente: la pressione fiscale, le ingiustizie sociali, le differenze reddituali, la percezione di non avere la forza di incidere in maniera concreta sulle decisioni prese dalla politica. Le ultime lamentele, ma soltanto in ordine di tempo, riguardano, almeno nel nostro Paese, la manovra che il Consiglio dei ministri ha approvato lunedì scorso. Premesso che al momento siamo a conoscenza dei soli titoli (la qual cosa, peraltro, non è che rassicuri più di tanto, visto che poi il diavolo si nasconde nei particolari), dalle anticipazioni fornite emerge chiaramente che, ancora una volta, le speranze di veder imprimere una svolta al Paese sono destinate a rimanere sulla carta. L’occupazione dei giovani è affidata al solito bonus, neanche troppo appetibile per la verità. Poiché nulla si prevede sul versante dell’età pensionabile e sulla flessibilità in uscita verso la pensione, non ci sarà l’auspicato ricambio generazionale. Molti dipendenti pubblici, abituati a far di conto, saranno già consapevoli che le risorse annunciate sono briciole che non coprono il passato, ma che neanche sono minimamente sufficienti per il futuro. Il rinnovamento del nostro sistema produttivo dovrebbe poggiare su 500 milioni di euro, assolutamente insufficienti per fronteggiare le sfide della globalizzazione. A fronte della crescita esponenziale della povertà assoluta, più che raddoppiata dall’inizio della crisi, è stanziato mezzo miliardo di euro, vale a dire poco più di 160 euro lordi annui per persona povera. Nulla per venire incontro alle esigenze delle aree terremotate, come per ridurre l’impatto dei superticket nella sanità. Soprattutto non vi è traccia della riforma fiscale che pure avrebbe dovuto e potuto essere centrale, alla luce del fatto che tre quarti della manovra è assorbita dalla neutralizzazione delle clausole di salvaguardia che prevedono un aumento automatico di Iva ed accise. Si tratta di 15,7 miliardi di euro che, senza colpo ferire, il governo decide di mettere da parte per impegni presi nel 2011. Sono passati sei anni, durante i quali non è stata fatta l’unica cosa che sarebbe servita veramente: l’apertura di un vero tavolo di confronto sul fisco con l’obiettivo di alleggerire il carico sulle famiglie, in particolare quelle dipendenti da reddito da lavoro o da pensione. Del resto, tornando ai cahiers, i cittadini francesi chiesero al re di non essere tassati senza il consenso, che venissero soppresse le imposte arbitrarie e che i tributi indispensabili venissero ripartiti su tutti i cittadini senza distinzioni. Sembra oggi.