Sempre più imprese ricorrono al cosiddetto ‘lavoro agile’ o smart working, l’approvazione della legge, pur importante, è solo la ‘certificazione’ di un fenomeno che nel 2017 in Italia ormai rappresenta una realtà, nonostante le resistenze culturali ed economiche, nonostante la crisi. O forse proprio “grazie” alla crisi.
È aumentato del 14% rispetto al 2016 (e del 60% rispetto al 2013) il numero dei lavoratori che ricorrono a tale forma di lavoro che ha quale vantaggio principale l’autonomia e la scelta delle modalità del lavoro in termini luogo, orario e strumenti.
Secondo una ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentata in questi giorni, gli smart worker sono ormai 305.000 – l’8% del totale dei lavoratori (considerando i dipendenti impiegati, quadri e  dirigenti occupati in aziende pubbliche o private con più di 10 addetti). A quanto emerge dallo studio gli smart worker dimostrano maggiore soddisfazione per il proprio lavoro e maggiore padronanza di competenze digitali rispetto agli altri. Non a caso il titolo del convegno scelto per diffondere il rapporto si intitolava “Smart working: sotto la punta dell’iceberg”. ‘Punta dell’iceberg’ perché, nonostante il fenomeno sia in evidente espansione, sono ancora pochi i progetti che hanno come obiettivo il ripensamento dei modelli  organizzativi del lavoro.
Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano il vantaggio delle imprese sarebbe notevole, perché potrebbe arrivare a incrementare la produttività pari di circa il 15% per lavoratore.
Non a caso, e non per mancanza di buona volontà, ma di peculiarità del modello aziendale – aggiungiamo noi – sono le grandi imprese le prime a ricorrere agli smart workers: il 36% di esse ha già lanciato progetti strutturati (il 30% nel 2016), ma le iniziative che hanno portato veramente a un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro sono ancora limitate e riguardano circa il 9% delle grandi aziende. Tra le pmi cresce l’interesse, 22% con progetti, ma solo il 7% di esse lo ha fatto con iniziative strutturate; un considerevole 40% si dichiara ‘non interessato’ al modello per la limitata applicabilità nella propria realtà aziendale. Non può sorprendere che nella pubblica amministrazione solo il 5% degli enti abbia attivi progetti strutturati e un altro 4% pratica lo smart working solo informalmente.
Quale il vantaggio per i lavoratori? Una sola giornata a settimana di “remote working” può far risparmiare in media 40 ore all’anno di spostamenti, con riflessi positivi sull’ambiente.
E in termini di guadagno? I soldi, per carità, non sono tutto nella vita, ma in periodi di crisi contano ancora di più. E c’è anche un altro rischio, quello di diventare delle isole, magari anche ‘felici’, ma certamente più “gestibili” dal datore di lavoro e soprattutto più esposti ai rischi di una maggiore insicurezza sul lavoro.