di Giovanni Magliaro

I numeri e le statistiche, nella loro aridità e nella loro semplicità, valgono molto più di tanti bei discorsi e di tanti blabla. Platone nella Repubblica diceva che i numeri sono essenziali ai governanti perché li aiutano a ragionare. Sicuramente aiutano tutte le persone in buona fede non solo a ragionare e a capire la realtà ma anche a basarsi su qualcosa di solido per cercare le soluzioni ai problemi.
Se diamo uno sguardo approfondito allo stato della nostra Italia, da un punto di vista economico e sociale, i numeri e le statistiche ci delineano un quadro molto lontano da certe affermazioni governative o di certa stampa che hanno interesse a divulgare una realtà di comodo.

Cominciamo dal lavoro. Di lavoro come lo intendiamo oggi ce ne sarà sempre di meno in futuro. L’automazione, con lo sviluppo delle nuove tecnologie, ridurrà l’offerta di nuovi posti specialmente nelle fasce meno qualificate. Amazon, per fare un esempio, utilizza già oggi oltre diecimila robot per smistare i pacchi con i prodotti acquistati tramite internet. La macchine tendono a sostituire gli uomini. Nella sola Unione Europea viene considerato a rischio sostituzione con robot e computer nei prossimi anni circa il cinquanta per cento dei posti di lavoro non specializzati. Come se ne esce? In un solo modo : con la crescita in termini di competenze e di preparazione del capitale umano che non può essere sostituito da macchine. Il Governatore della Banca d’Italia, Visco, ha scritto recentemente:” Il capitale umano, cioè il patrimonio di conoscenze di cui si dispone, è fondamentale per la crescita economica. L’Italia è entrata invece in un circolo vizioso : bassi rendimenti nell’istruzione scoraggiano investimenti nel capitale umano e impediscono il raggiungimento dei Paesi avanzati. Una scarsa dotazione di capitale umano non favorisce la capacità dell’economia di innovare”.
Gli Stati Uniti stanno facendo grandi investimenti nella formazione tecnico-scientifica. Il risultato è che la disoccupazione è al 5 per cento mentre la media europea è dell’undici e cinquanta per cento. Ma all’interno dell’Europa abbiamo la Germania, con un ottimo sistema formativo, con una disoccupazione al 5 per cento e l’Italia (dove la qualità della formazione è messa molto male) con disoccupazione al 12,6 per cento. I giovani italiani sono i più colpiti dagli squilibri della formazione e dalla enorme distanza che separa la scuola dal lavoro. La disoccupazione giovanile europea è al 23 per cento, in Italia siamo al 43 per cento (penultimo posto nei Paesi Ocse dopo la Grecia) con le regioni meridionali dove un giovane su due è senza lavoro.
C’è il paradosso che molti posti di lavoro restano scoperti perché non si trovano le competenze necessarie. Un esempio. L’ultimo concorso per entrare in Magistratura, sistemazione prestigiosa e ben retribuita, ottimo status sociale e carriera garantita. Posti disponibili 365, 21.000 domande, solo 311 assegnati e quindi 54 rimasti scoperti perché non avevano raggiunto la sufficienza.
Secondo l’Osservatorio della Unioncamere quattro aziende su dieci in media fanno fatica a trovare le professionalità idonee e con punte maggiori in certe regioni : nel Veneto ad esempio si arriva a otto su dieci. Sono diventati introvabili esperti di software, analisti programmatori, ingegneri specializzati e via dicendo.
Ciò è dovuto anche al fallimento dei Centri per l’impiego che hanno sostituito i vecchi uffici di collocamento. Mentre in nazioni più attrezzate buona parte delle assunzioni passa attraverso gli sportelli pubblici (esempio Germania il 31 per cento) da noi si rivolgono ai Centri solo il 3 per cento di quelli che cercano un lavoro. Ma nei Centri tedeschi lavorano a tempo pieno oltre centomila addetti buona parte dei quali è personale specializzato, in Italia gli addetti sono 8000. Si raccontano storie di imprenditori che si sono rivolti ai Centri per l’impiego e dopo inutili perdite di tempo hanno reperito il personale attraverso altri canali.
In realtà in Italia per gli ammortizzatori sociali si spendono 24 miliardi di euro all’anno ma la maggior parte vanno per indennità di disoccupazione e cassa integrazione mentre la spesa per le politiche di attivazione del lavoro è stata ridotta. In tutta Europa il primo destinatario della spesa pubblica per il lavoro è il giovane disoccupato da noi avviene il contrario.

Tutti sappiamo che per rilanciare l’economia e per cominciare a risalire il fondo in cui siamo precipitati nella grande crisi iniziata nel 2008 il fattore più importante sarebbe rimettere in moto la competitività del sistema Italia. Purtroppo oggi per competitività siamo al 49 posto su 144 Paesi (rapporto del World Economic Forum). In Europa ci stanno dietro solo Grecia, Bulgaria e Romania. Non è facile invertire il trend negativo dovuto alla mancanza di investitori privati. L’instabilità politica (dal 1970 ad oggi c’è in media una crisi di governo l’anno), la pesantezza dell’apparato burocratico, gli alti livelli di tassazione e l’assurda complicazione dei meccanismi fiscali, la carenza delle infrastrutture (a cominciare dalla fibra ottica) e il costo maggiore dell’energia scoraggiano gli investitori.
A parte l’instabilità politica (dopo di noi ci sono solo Libano e Turchia), vediamo più da vicino gli altri elementi che ostacolano gli investimenti e quindi la competitività. Al primo posto è da mettere la burocrazia inefficiente. Procedure lente e complicate, leggi e regolamenti che vengono sfornati senza sosta e cambiano di continuo sfiniscono qualsiasi persona o società che voglia intraprendere un’attività in Italia. Per non parlare della corruzione facilitata proprio dalla farraginosità delle leggi.

La pressione fiscale ha continuato a salire in Italia negli ultimi anni. Il carico sulle imprese ha raggiunto il 65 per cento dei profitti (in Germania è al 48 per cento, in Gran Bretagna al 33 per cento). Prima di noi si trovano solo i Paesi scandinavi che però come contropartita danno una ben diversa qualità di servizi pubblici e di welfare. L’aliquota di tassazione sul lavoro in Italia è al 43 per cento mentre la media dell’Unione Europea è al 36 per cento. Secondo i dati di questi giorni in Italia abbiamo per contro una enorme evasione fiscale calcolata in circa 110-120 miliardi di euro all’anno. L’IVA viene evasa per circa il 30 per cento contro il 10 per cento della Germania, l’8 della Francia e il 9 del Regno Unito.

La scommessa sul futuro si gioca al tavolo dell’innovazione. Ma se guardiamo ad uno dei settori dove l’innovazione ha più spazio, cioè l’informatica, c’è da preoccuparsi un bel po’. In quanto a copertura delle reti di accesso di nuova generazione, la cosiddetta banda ultralarga, siamo l’ultimo Paese europeo. La velocità media di navigazione da noi è 5,6 megabit al secondo, la metà della Germania , un terzo dell’Olanda. Le abitazioni coperte dalle reti di nuova generazione sono il 36 per cento contro il 68 per cento della media europea. Il web è un volano strategico per l’economia e una straordinaria opportunità per le aziende. Il fatturato delle imprese europee ottenuto attraverso internet si aggira sul 20 per cento, da noi è il 7 per cento. I popoli sono divisi oggi tra chi ha accesso con facilità alle informazioni e alle opportunità fornite dalla rete e tra chi ne è escluso. Parliamo del cosiddetto digital divide. Da noi regna sovrano e si fatica se non ad eliminarlo almeno a ridurlo.

Per completare il quadro potremmo elencare altri dati su elementi fondamentali che completano la fotografia dell’Italia di oggi. La giustizia che non funziona : in Italia servono in media tre anni e mezzo per risolvere una banale lite commerciale e otto anni per definire una procedura fallimentare. Parliamo di tempi tre volte maggiori della media europea. Tutto ciò causa un rilevante costo economico e causa una scarsa reputazione a livello internazionale scoraggiando gli investimenti in Italia. Chi ha ragione rischia di avere sempre e comunque torto e chi ha torto punta tutto sui tempi lunghi per farla franca.

Le reti infrastrutturali. Il primo treno ad alta velocità nel mondo ha viaggiato in Italia. Era il 1939. Un elettrotreno ETR 200 percorse la tratta Firenze Milano a 165 chilometri orari con punte di 200 chilometri. Oggi sono coperti dall’alta velocità 1000 chilometri, un terzo della rete di cui dispongono spagnoli e francesi. Le grandi opere hanno bisogno del portafoglio dello Stato. Ma in Italia la spesa pro capite per infrastrutture è stata tagliata negli ultimi anni del 30 per cento. Ha riguardato ferrovie, strade, porti. Il risultato è che oggi siamo al posto numero 82 nel mondo per dotazione infrastrutturale, ultimi in Europa.

E poi il problema dei problemi è che c’è ancora un divario inaccettabile tra il Nord e il Sud. Fino a quando questo divario non sarà colmato saremo sempre in questa situazione di ultimi o penultimi in Europa.

Certo, il quadro descritto può sembrare pessimistico o esagerato in senso negativo. Di fronte a queste cifre disastrose c’è da ricordare che comunque l’Italia è ancora la quinta manifattura al mondo e la seconda in Europa dopo la Germania e che abbiamo tante imprese che esportano e crescono grazie alla qualità dei prodotti e alla genialità degli Italiani. Abbiamo ancora ottime scuole e università, ospedali all’avanguardia e perfino tribunali dove la giustizia funziona. Il problema è che parliamo di situazioni a macchia di leopardo, di linee di eccellenza su cui non si riesce ad allineare il resto della penisola. Abbiamo, e non lo dobbiamo dimenticare mai, grandi capacità individuali e non siamo certo secondi a nessuno per intelligenza e capacità di inventare.
Sono convinto che l’Italia per uscire dal tunnel avrebbe bisogno di uno scatto di reni, di una tensione sociale e morale come quella che si manifestò negli anni del dopoguerra quando riuscimmo a ricostruire un Paese distrutto e riuscimmo a conquistare le prime posizioni tra gli Stati ad economia avanzata. Come quella che caratterizzò il periodo d’oro del ventennio fascista quando furono costruite oltre cento città nuove e si modernizzò l’Italia (strade, scuole, ponti, reti ferroviarie, università, ospedali, bonifiche). Ora stiamo toccando il fondo. Per una legge fisica inevitabilmente risaliremo, magari dopo aver buttato a mare la zavorra.