di Nazzareno Mollicone

Oggi, 8 agosto, si celebra la “Giornata nazionale del Lavoro Italiano nel Mondo”, in occasione della ricorrenza del 61° anniversario della tragedia mineraria di Marcinelle (località belga della Wallonie, in provincia di Charleroi) dove morirono 262 minatori tra i quali 136 italiani.

La “giornata” fu istituita con un decreto del 1° dicembre 2001 su proposta del deputato del Movimento Sociale Italiano Mirko Tremaglia, che all’epoca era ministro per gli Italiani all’estero nel governo Berlusconi, ed ogni anno – oltre a diverse celebrazioni effettuate da istituzioni pubbliche, da Comuni e da associazioni private di emigranti – si rinnova la commemorazione delle vittime dinanzi alla miniera “BoisduCazier” dove avvenne la tragedia, con la presenza di rappresentanti del governo, di parlamentari nazionali e del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero.

Il ricordo di questa disgrazia, che tanto impressionò gli Italiani del tempo e portò all’interruzione ed alla ridefinizione delle modalità dell’emigrazione, induce una riflessione che lega gli eventi di allora a quelli odierni.

L’emigrazione italiana verso le miniere, non solo belghe ma anche francesi, fu una vera e propria “emigrazione di Stato”, una specie di risarcimento danni di guerra fatto con gli uomini quale merce da lavoro. Infatti nel 1946 il governo De Gasperi (lo stesso che subì il “Diktat” dell’anno successivo) stipulò – forzosamente – degli accordi con quei Paesi in base ai quali l’Italia avrebbe ricevuto carbone per le sue necessità in cambio di lavoratori. E si stabilì anche il prezzo, di questo scambio: 2.500 chili di carbone ogni 1000 lavoratori inviati. La disoccupazione post-bellica a causa delle aziende distrutte e della mancanza di materie prime indusse migliaia di lavoratori, soprattutto del centro-sud (la più alta densità di Caduti sul lavoro proveniva da Manoppello, un comune in provincia di Pescara) ad offrirsi per emigrare anche allo scopo d’inviare qualche risparmio sulle magre paghe percepite alle loro famiglie. Fra l’altro, le condizioni di vita e di lavoro erano molto dure: il lavoratore italiano emigrato si vincolava (come nella Legione Straniera…) a cinque anni di attività ininterrotta nelle miniere avendo come alloggio le vecchie baracche dei campi di concentramento per i prigionieri di guerra!

In quel periodo si manifestò quindi, con l’accettazione passiva di quelle dure condizioni, la mancanza da parte dell’Italia della sua sovranità nazionale: ma la stessa mancanza di sovranità nazionale si sta registrando oggi, e non siamo difronte alle conseguenze di una guerra persa.

Infatti quella del 1946-1956 era certamente un’emigrazione forzata, una specie di tributo in uomini, ma veniva però organizzata dagli Uffici del Lavoro, con visite mediche preventive prima di concedere l’espatrio, di assistenza alle famiglie rimaste in Patria, di relazioni con i corrispondenti uffici dei Paesi di destinazione, con predisposizione dei trasporti. Oggi, invece, abbiamo un’immigrazione incontrollata favorita da grandi organizzazioni finanziarie e criminali, ignorata dall’Unione Europea e dagli Stati con noi confinanti, costituita in gran parte da persone non solo prive di capacità lavorativa ma anche poco desiderose di impegnarsi in qualsiasi attività. Con questo non si vuol dire che l’Italia non debba accettare immigrazione: lo ha fatto per tanti anni fino al 2011 basandosi però sul sistema delle “quote” di accettazione di persone in quantità definite e con qualifiche già predisposte per l’occupazione.

Pensiamo per esempio ai filippini, molto impiegabili in attività di supporto alle famiglie; alle persone provenienti da Paesi dell’Est europeo, quale Albania, Romania, Ucraina; a quelle provenienti dal Sudamerica.

A nostro parere, l’attuale mancanza di sovranità nazionale – simile per molti versi a quella post-bellica –consiste nel fatto che non si può né programmare né fermare né risolvere con altre modalità il flusso ininterrotto, abbandonando così questi immigrati a successivi sfruttamenti: di chi l’inganna per farli allontanare dai loro Paesi, di chi li trasporta fino alla Libia, di chi li detiene in attesa della partenza, di chi li imbarca su barconi insicuri, di chi li raccoglie (con il ruolo ambiguo di presunte organizzazioni umanitarie) e – infine – di chi li sfrutta in Italia, siano essi organizzazioni criminali, cooperative, od imprenditori senza scrupolo.

Un’altra osservazione vorremmo fare a proposito dei nostri antichi emigrati nelle miniere ed in altre occupazioni dure, mal pagate e peggio organizzate. Proprio in queste settimane di agosto, il presidente dell’INPS Tito Boeri ha proposto di abolire le integrazioni assistenziali, a cominciare dalla 14^ mensilità, ai pensionati italiani residenti all’estero in Paesi in cui esistono sistemi di welfare. Ciò in quanto, secondo lui, l’Italia risparmierebbe qualche milione di euro ritenendo che l’assistenza possa essere corrisposta dagli Stati di residenza. Cosa che però non è affatto sicuro, e soprattutto che quei trattamenti siano riconosciuti ai nostri pensionati. A questo proposito, vi è stata una precisa presa di posizione da parte del presidente della Commissione della Camera dei Deputati per le questioni degli Italiani all’estero.

Ebbene, ci auguriamo che questa giornata del “ricordo del sacrificio del lavoro italiano nel mondo” (e non a caso è stata usata la parola “sacrificio”, perché analoghe disgrazie si verificarono in altri Paesi, dalla Francia agli Usa, dal Canada all’Australia) induca anche il presidente dell’INPS ad una seria riflessione sulle condizioni lavorative che hanno originatole modeste pensioni corrisposte ai nostri connazionali residenti all’estero, ed a soprassedere dalle sue immotivate proposte.